Critica
breve descrizione
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Donatella Barbetta
QUANDO IL COSMO SI SPECCHIA NEI GIOIELLI – TECNICHE DEGLI AVI, COSÌ SPLENDE L’ORO
Donatella Barbetta, 1995
QUANDO IL COSMO SI SPECCHIA NEI GIOIELLI
Collane, sculture e posate rielaborate con pietre preziose. Nel segno dell’astrologia.
Donatella Barbetta 1995
“Il mio intento è quello di restituire all’oreficeria la dignità di arte maggiore e vorrei lasciare un segno attraverso la ricerca dei materiali nella creazione dei miei gioielli”. Le parole dell’orafa Imelde Corelli Grappadelli sintetizzano con chiarezza le opere esposte fino a qualche giorno fa nella mostra antologica “Tanti Auguri”, alla galleria l’Ariete. Dopo l’incontro con la totalità del blu della collana di lapislazzuli di grandi dimensioni, si passava alla scultura d’argento e pietre dure che rappresentava un cosmo dove erano racchiusi temi legati all’umanità: l’amicizia, la solitudine, la pazzia ma intesa in senso creativo. Attorno quattro cucchiai-bracciali di manifattura austriaca di fine ottocento che identificavano l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco. Le posate-gioiello sono state la prima creazione della allora diciottenne Imelde Corelli, alla quale un professore del liceo di Lugo chiese di mostrare il porto d’armi vedendola varcare la soglia dell’aula con una forchetta al braccio. Nelle vetrine erano esposti i “loligi”: collane, bracciali e orecchini che si scolpiscono sulla figura. Infatti i gioielli di Imelde sono creati “su misura” ed ogni oggetto nasce dietro le specifiche esigenze del collezionista committente. Tra i bracciali, posate d’argento provenienti da ogni parte del mondo , rese ancora più preziose dalla presenza di pietre dure. Infine il settore degli accessori. Spille da smoking e fermacapelli d’argento dove sono sbalzati i segni zodiacali. Leone, pesci, sagittario…….
TECNICHE DEGLI AVI, COSÌ SPLENDE L’ORO
Donatella Barbetta1995
“Artisticamente sono nata ai tempi della prima liceo, realizzando da una vecchia forchetta inglese d’argento, salvata nella mia casa di Lugo dal saccheggio della guerra, un bracciale con un motivo ad onde ottenuto dalla curvatura dei rebbi. Ricordo che il mio insegnante di italiano mi chiese se possedevo il porto d’armi….” Dopo le forchette sono arrivati i cucchiai, ” che molti oggi hanno copiato”, e intanto Imelde Corelli Grappadelli, della famiglia del musicista Arcangelo, pure con la ferma intenzione di diventare orafa, non trovando maestri artigiani che rivelassero i segreti del mestiere, prosegue gli studi a Bologna dove si laurea nell’80 in Storia Antica con una tesi sulla tecnologia dell’oro nell’antichità. “Così ho imparato direttamente sui testi degli antichi, ho studiato Erodoto, Plinio ed ho lavorato in modo analitico sugli ori di Spina e Taranto, spiegando le antiche tecniche di lavorazione, tra cui la granulazione.” Più tardi diventa l’unico allievo del laboratorio orafo Renazzi e Ferri di Bologna finchè prende il volo. A quel punto potevo scegliere: intraprendere la via del commercio oppure quella del museo – spiega Imelde che naturalmente propende per questa ultima – e così ho puntato sulla qualità totale, creando solo pezzi unici. Quando pensa e realizza i suoi gioielli, Imelde si ispira o ad un personaggio storico come nel caso delle collane di Amalasunta e di Isabella d’Este presentate recentemente alla Mostra le “Mani di Shiva”, oppure realizza un lavoro psicologico sulla persona che indosserà le sue creazioni. “Prima di iniziare a lavorare ho bisogno di compilare una vera e propria scheda analitica della persona che userà l’oggetto, perché solo così scatta la molla che mi permette di creare: chiedo la data di nascita, il segno zodiacale, il tipo di scarpe preferite, il colore ideale, l’automobile che si vorrebbe possedere, la religione professata, quadri, fiori, spettacoli teatrali…, e non importa se occorreranno ore oppure giorni per approfondire la conoscenza. Ai ragazzi che desiderano fare un regalo alle fidanzate chiedo sempre, oltre ad una precisa descrizione della donna, anche la foto delle sue mani e così sono piena di ritratti di mani che stringono cani, gatti od altri oggetti dice Imelde che ora collabora con la rivista “Italia Orafa”, mensile destinato agli operatori del settore. Dal laboratorio di via Torleone escono le creazioni dirette non solo nel nostro paese e in Europa ma anche negli Stati Uniti, per esempio New York. Attualmente il pallino dell’Imelde è di rivalutare l’arte orafa. I più grandi artisti del rinascimento, Brun
Daniela Bellotti
ANTICHI SIGILLI E PIETRE INCISE
Daniela Bellotti, 1991
Archeologia, glittica, oreficeria e design sono gli ingredienti di Abraxas, una originale mostra organizzata da Fattoadarte. La mostra presenta una rara collezione, mai esposta, di antichi sigilli e pietre incise sassanidi, chiamati Abraxas dal nome di una delle figure simboliche e magiche ricorrenti. Si tratta di materiale risalente alla tarda antichità, al periodo che va dal III al VII secolo d.c., ogni pietra è minutamente incisa, con figure che derivano dal vasto repertorio iconografico dell’esoterismo e della più antica cultura persiana. Un volumetto a cura di Giulio Busi, edito in occasione della mostra, raccoglie gli studi e le interpretazioni su questo inusuale ed affascinante materiale la cui preziosità ha suggerito ai galleristi di Fattoadarte un’applicazione nel campo della oreficeria. Ad una orafa-archeologa, Imelde Corelli Grappadelli è stato perciò affidato il compito di progettare ed eseguire una serie di gioielli con gli Abraxas. Il risultato, negli esemplari esposti, riesce nell’intento di unire alla fruibilità dell’ornamento una valenza culturale, che rende significativi in modo speciale questi gioielli. Di particolare rilievo è l’uso di strutture nuove, studiate per valorizzare di volta in volta le diverse qualità di ogni pietra, ed eseguire poi con tecnica orafa di altissimo livello, recuperando in alcuni casi sistemi antichi di lavorazione e determinando così “pezzi unici” di notevole interesse estetico. (27 settembre 1991)
Simonetta Bondoni Busi
ARCHEOPATAFISICA
Catalogo a cura di Simonetta M. Bondoni Busi, 1991
Nell’intricato labirinto delle teorie sull’arte che hanno tormentato il XX secolo, ciò che sembra ancora non riuscire a sbloccarsi è il pregiudizio relativo alle arti cosiddette decorative, considerate tuttora “minori”. Come se la “decorazione”-chiamata è vero, col nome più alto di estetica- non fosse poi il fine di qualsiasi opera d’arte; è come se qualunque tipo di opera d’arte non fosse costretto a fare i conti con l’abilità manuale, con l’impasto dei colori, con la fusione, con la specificità degli attrezzi e via discorrendo. La maggior parte delle persone sarà tuttavia disposta ad ammettere che un dipinto (un quadro ad olio per esempio), non è ipso facto un’opera d’arte, anche se più difficile sarà il passo successivo: e cioè il riconoscere che un oggetto (un gioiello per esempio) possa al contrario esserlo.Ovvero la qualifica di artistico verrà, nel secondo caso, tendenzialmente sfumata, circostanziata, delimitata da categorie in qualche modo riduttive, che sembrano avere parentela con la riserva morale Dovrebbe invece in fondo bastare la semplice riflessione che se un gioiello dipinto all’interno di un quadro (e ne possediamo infiniti esempi) può qualificarsi come opera d’arte, non si vede perché non possa il gioiello medesimo, nella sua tridimensionalità, aspirare al titolo puro e semplice di arte. Mi vengono alla mente, in proposito, i formidabili tappeti di Lorenzo Lotto, centro focale di molti suoi quadri, raffigurati con sublime maestria ma anche con assoluta precisione. Dubito che solo pochi, trovandosi oggi sotto gli occhi quei medesimi tappeti, avrebbero l’accortezza di guardarli con gli occhi con cui li guardava appunto il Lotto, e cioè come vere e proprie opere d’arte. La distinzione tra arti maggiori e minori è evidentemente tarda e di stampo positivistico (è chiaro a tutti che Cellini considerava se stesso ed era considerato dagli altri come un grande artista) e tuttavia – come si diceva- è dura a morire; anche se da molte parti, e nemmeno da oggi, ci si sforza di dichiararla obsoleta, inadeguata, e si reclama la necessità di chiuderla infine in uno dei cassetti della storia. I gioielli appartengono alla stirpe di quelli che reclamano giustizia (se non vendetta) e più di altre categorie, in verità faticano ad ottenerla. Pesa forse su di essi il pregiudizio che grava in generale su tutto ciò che viene indossato invece di venire appeso al muro o installato su di un piedestallo.Vengono cioè relegati nel campo della”moda”, come se il fenomeno “moda” non infestasse ed inquinasse tutti gli ambiti estetici senza distinzione; e lo sanno bene tutti gli “addetti ai lavori ” (critici e artisti), sia gli onesti che i ciarlatani. Il gioiello è inoltre penalizzato, paradossalmente, proprio dal fatto di essere realizzato con materiali altamente pregiati – oro, argento e pietre preziose – elemento che porta alla facile confusione tra bene-rifugio e bene artistico. L’impressionante produzione contemporanea, in gran parte meccanica, di “gioielli in serie” non viene certo in auto a chi invece veda la straordinaria potenzialità della oreficeria e decida di esprimersi proprio con questo mezzo artistico.Non è infatti un caso che alcuni artisti, specialmente d’oltralpe, abbiano recentemente proposto gioielli creati con materiali alternativi e poveri (carta, legno, tessuti) spesso mescolati con quelli tradizionali e pregiati. Benché nulla si opponga in linea di principio a questa sperimentazione (che tocca del resto l’intero mondo dell’arte e i cui risultati vanno valutati -come sempre -caso per caso) essa testimonia forse anche del malessere di un’arte che deve fare letteralmente i conti con il valore di oro e brillanti, cioè con quanto di più monetabile sia dato pensare. Chi, dunque, come Imelde Corelli Grappadelli , decida di esprimersi creando gioielli con l’uso delle tecniche e materiali specifici dell’arte orafa, sa di non doversi trovare di fronte a un compito facile. E tuttavia basta esaminare da vicino e studiare uno solo di questi monili come si fa con qualsiasi opera d’arte, per rendersi conto sia della qualità del lavoro sia dello straordinario sforzo di progettazione che sottende ciascuno di essi. A chiunque guardi con attenzione i gioielli di Imelde risulta perfettamente chiaro che ogni linea, ogni proporzione, ogni spessore ed ogni voluta rispondono ad una esigenza interna all’opera stessa, lo stesso vale per la scelta delle pietre in cui forma e colore dichiarano una ben precisa disposizione d’animo oltre che una insostituibile necessità formale. Pur utilizzando con perfetta maestria tutte le tecniche dell’arte orafa e pur conoscendone ogni segreto (o forse proprio per questo) l’artista è in grado di creare lavori le cui vibrazioni vanno ben al di là del puro virtuosismo. Anzi talora all’opera viene lasciata qualche apparente imperfezione quasi a firma e garanzia di autenticità,perché all’imitatore e al falsario (croce di ogni artista) mai riuscirà di copiarle. Al contrario si sforzerà di eliminarle, incapace di comprendere l’intima necessità di questi “nei di Venere “. Perché di necessità -lo ripetiamo- si tratta; la perla “mancante” nel collier “serve” a rivelare il filo d’oro che c’è sotto,l’imperfetta specularità di due orecchini coglie la leggera asimmetria di un volto; la diversa misura di due perle racconta la storia di due pianeti….e così via, in un continuo intrecciarsi di scoperte in cui ognuno può esercitare il proprio occhio e la propria intuitività. E’ quindi evidente che questi monili non sono intercambiabili, e la scelta di ognuno di essi non potrà avvenire altro che su un piano di emozione empatica e simpatetica. Solo passando attraverso la vibrazione artistica ciascuno di noi potrà scegliersi (o essere scelto da) questi orecchini che si parlano oppure che danzano da un capo all’altro della testa, queste vorticose spille sovradimensionate, questi bracciali che si avvinghiano con elastiche ampiezze. Non è dunque un caso che per questi gioielli l’artista progetti anche espositori speciali: Imelde Corelli Grappadelli (e anche il nome – come lei stessa sottolinea – si attorciglia su se stesso) costruisce allora personaggi di patafisica memoria. Arcaici e domestici, ieratici e schizofrenici insieme, questi idoli di creta indossano con quieta ma conturbante disinvoltura ori e pietre, perle e coralli. Queste sculture che nascono da cordami di creta ritorta (il cui antropoformismo è quello visionario del Père ubu) spingono ancora più in profondità i meccanismi di identificazione e di riflessione già messi in moto dai monili. Non v’è dubbio che siamo in presenza di un lavoro denso di connotati archetipici, ricco cioè di elementi in grado di parlare – ad un livello più o meno consapevole- alla nostra coscienza. E – procedendo nella analisi – troveremo, senza troppa difficoltà, che gli elementi archetipici hanno un’espressione così storicamente assidua da essere archeologici. In ogni monile la modernità dinamica del presente trova radici in un passato carico di storia e di significati. Ogni contorsione del metallo prezioso è alimentata da secoli di sedimentato splendore. Ciò che è più nuovo è più archeologico. Questo è l’assioma di epigrafica certezza, del lavoro di Imelde. Assioma tanto più vero quanto più sostanziato da una storia personale di mesi passati nei musei a studiare i gioielli di scavo(Imelde si laurea con una tesi di storia antica con una tesi su “Elementi della tecnologia dell’oro nella antichità”), e tanto più vero quanto più sembra dare risposta all’ansia di novità che prelude al millennio a venire. Nel tifone inarrestabile della iperproduttività industriale e del consumo sempre più veloce, si definisce un centro immobile in cui regna la calma. Il centro del vortice è l’antico, che pesca nelle viscere della terra: l’archeologia è il nuovo. Tutto ciò che riesce a divenire archeologico è nuovo: l’oro, e i monili, e la patafisica e noi stessi. Provvisti ciascuno di un titolo insieme lapidario ed ironico (nella migliore tradizione dell’arte contemporanea), firmati e punzonati, i gioielli di Imelde si avventurano nel mondo con spavalda timidezza; e non sembri contraddittorio, perché se una certa spavalderia si trova in chi è convinto e orgoglioso della propria unicità , nondimeno la timidezza è tipica di chi si propone agli altri come un omaggio e come una poesia: senz’altra arma della propria bellezza. Questi monili si offrono al fruitore in un certo senso come appena usciti da un fortunata e non profanato scavo: nuovissimi, brillanti e già ricchi di tutto il pathos e di tutto il fascino della storia. L’archeologia ci viene in aiuto ancora una volta proponendoci di guardare questi lavori con gli stessi occhi con cui si guardano i monili che si presentano a noi già carichi di secoli e di millenni: fortificati dalla magia incantatoria dell’antichità essi appaiono senza ombre nella loro essenza di opere d’arte. Nessuno dubiterà – nell’osservare i gioielli dell’antico Egitto, i meravigliosi monili della Magna Grecia o i reperti etruschi- di trovarsi di fronte a prodotti artistici. Nell’indicarci l’archeologia, dunque, Imelde ci indica anche un strumento, una sorta di magico cannocchiale con cui leggere il suo lavoro, ed anche una categoria estetica che restituisca all’arte del gioiello la sua aura. Lo stretto vincolo che lega Imelde e l’archeologia viene sottolineato e rinsaldato dalla ultima “scoperta archeopatafisica” presentata in una serie di monili battezzati con il nome di Abraxas, la potente divinità gnostica, l’arconte dei 365 Cieli. In questi gioielli, l’oro riporta a nuova vita antiche pietre magiche incise, i potenti sigilli sasanidi carichi di simboli e di quindici secoli di storia. Questi sigilli di forte impatto visivo erano anche potenti amuleti, e la loro potenzialità magica non chiede che di venire riattivata; intrappolati in spirali di oro, inseriti in fili ritorti, racchiusi tra lamine auree, essi tornano a proporsi nella loro qualità di pietre, assolutamente personali, monili e amuleti, unici e irripetibili. La foresta dei ferodi-serpentiformi sculture in creta, cugini dei patafisici – nella quale gli Abraxas sono presentati, vuole sottolineare nella distribuzione dello spazio e nello spazio i caratteri “di dilatazione, di ascesa, di anelito…e di quant’altro.
CATALOGO
1. I SORRISI.3 Collana in oro. La collana è composta da nove elementi in gradazione, raffiguranti una bocca che sorride. E’ realizzata in lamine d’oro traforate e sbalzate, e filo trafilato a mano. I legami tra i sorrisi sono snodi a serpentello attenuti da un filo progressivamente assottigliato tramite limatura manuale. Anche la chiusura è un serpentello annodato. cm.39x 1,5 1990.
2. FIBULA IN ORO. Dal corpo del gioiello, ottenuto per sbalzo e martello, si diparte l’ardiglione decorato con microgranuli. E’ un esperimento di tecnologia orafa teso al recupero dell’antica granulazione etrusca: tra i granuli e la spilla non esiste saldatura. cm.5,8 x 0,9 x 0,9 Collezione Cataldi. Il pezzo è stato esposto (assieme ai n.3 e 4 ) all’XI Biennale di arte antica. La formazione della civiltà in Emilia Romagna, mostra al Museo Civico Archeologico di Bologna, novembre 1987- gennaio 1988, ed è pubblicato in “la nascita della civiltà in Emilia Romagna, a cura del Ministero dei beni culturali ed ambientali, v.3, Bologna, 1988, p.75-90. 1987
3. SBALZO SU LAMINA, ESPERIMENTO N.2 Lamina in oro. Su una lamina in oro è ottenuta a sbalzo la figura di un leprotto, decorata in basso con microgranuli. Come il n.2 e il n.4 è un esperimento di recupero dell’antica granulazione etrusca. cm.1,7 x 2,2 x 0,04 Collezione Cataldi. Pezzo esposto alla mostra di Bologna, novembre 1987-gennaio 1988 (cfr. n.2.) 1987
4. SBALZO SU LAMINA, ESPERIMENTO N.3 Lamina in oro. Su una lamina in oro è ottenuta a sbalzo la figura di un onagro, decorata in basso da un “fiore” di microgranuli. Come il n.2 e il n.3. è un esperimento di recupero dell’antica granulazione etrusca. cm.3 x 4 x 0,04 Collezione Cataldi Pezzo esposto alla mostra di Bologna, novembre 1987- gennaio 1988 (cfr. n.2 ). Pubblicato anche in ” industria orafa italiana ” 990, n.11, p 22. 1987
5. ORECCHINOCOCLIDE Orecchini in oro e perle. Questi personalissimi orecchini vestono letteralmente l’orecchio, avvolgendone da dietro, il lobo esterno e ripiegandosi ad ansa sul davanti. Due perle scaramazze, accostate a perline più piccole in oro, ne creano la mobile decorazione. cm. 5,1 x 3 x 0,9 cm. 4,9 x 4 x 0,9 Collezione Quattrini 1990
6.SOLO PER LA ROBERTA Gemelli in oro, brillanti e perle. Un bastoncino in oro, con due perle scaramazze di diversa grossezza, allude – in questi gemelli – alla forma di una preziosa stadera. Un filo in oro si attorciglia sul bastoncino, mentre un piccolo brillante giace al di sotto della perla più grande. cm. 5,5 x 0,9 Collezione Quattrini 1991.
7. COMPENETRAZIONE E SUPERFETAZIONE alias JOLLY Spilla in oro, brillante (0,18 ct.) e tormalina bicolore rosa. Questo smaliziato gioiello decisamente sovradimensionato è realizzato con sbalzi concavi e convessi su lastre di oro laminato e traforato. La complessa struttura dell’oggetto, estremamente curata nei particolari, mantiene un bilanciato equilibrio tra volute e fitomorfismi: ” di nuovo lampi e arcobaleni intrecciati nella materia che non è più lattiginosa ma cristallina…è creata, si crea, si rigenera, esplode, il fuoco l’ha fatta rinascere” ( appunti dal carnet dell’artista). cm. 10,1 x 10,5 x 1 1990.
8. BALLERINE Orecchini in oro e perle. La lamina d’oro sbalzata e traforata crea due sagome con tutù e movenze di danza. Le ballerine si guardano tra loro e tengono sospesa ai piedi una grossa perla. Ballerina con gamba piegata: cm. 7,5 x 1,6 Ballerina con braccio levato: cm. 7,5 x 1,5 1990.
9. FLOREALE Orecchini pendenti in oro e perle. Sottili lamine in oro a motivo floreale sono saldate su un largo corpo a goccia; i pistilli aurei che nascono dai calici sostengono delicatamente le perle. Il motivo di sospensione è costituito dalla corolla di un fiore ( in oro traforato e sbalzato ) che si lega al pendente con una perla . Numerosi particolari differenziano i due orecchini, a sottolineare l’ispirazione vegetale e naturalistica della creazione. cm. 8,7 x 3,2 x 1,4 cm .8,6 x 3 x 0,7 1991.
10. TARZAN,OVVERO, HO CAPITO. QUESTA COLLANA PIACE A GIULIO Collana in lapislazzuli, oro e smeraldo. Questa collana di grosse perle in lapislazzuli è conclusa da un’insinuante chiusura in oro sbalzato. Il fermaglio, di forma allungata, si crea dall’orlo piegato in morbide volute floreali. Uno smeraldo cabochon forma il centro di una corolla a cinque petali, instaurando un pittorico rapporto con il blu del lapislazzuli. Cilindrici spessori raccordano la parte decorativa con il fermaglio vero e proprio. cm. 48 x 2 x 1,5 1991
11. AVREI VOLUTO ESSERE NELL’ALTRA VETRINA Pendente in oro, con sigillo cilindrico inciso in corniola. Una treccia in oro a tre fili saldati descrive un rombo, al centro del quale è inserito un sigillo. Il vistoso corpo di sospensione , pure in treccia in oro a tre fili, si attorciglia a forma di omega irregolare, in cui uno dei due riccioli sporge vigorosamente in avanti. Il riferimento iconografico afferisce alla parte inferiore della divinità di Abraxas. La pietra è un sigillo neoassiro, su cui sono state incise due figure umane, con teste di uccello e code intrecciate, e uno stambecco,sormontato da una testa di vacca. cm.5,3 x 3,9 x 2,1 1991.
12. COLLANA PER LA SIGNORINA FELICITA. OVVERO , FALLA INFILARE TU Collana in corallo rosa e oro. Una doppia fila di grosse perle di corallo rosa a gradazione crea questo elegante girocollo, il cui fermaglio è costituito da una lamina di oro sbalzato. Sulla chiusura è raffigurata in forme lineari l’immagine di un capricorno, col capo rivolto all’indietro. Cm 39,2 x 2,7 x 1,5 1991.
13. SCORPIONE Bracciale in argento. Una lamina di argento a fascia, piegata e rifinita in maniera irregolare, reca sbalzata l’immagine dello scorpione. cm. 5,2 x diam. cm.6 1989.
14. LOLIGO Spilla in argento e zaffiro. In un tutto continuo un filo d’argento si piega ad onda diventando via via più spesso e a sezione quadrata. Dopo avere creato una piccola spirale si allunga sviluppandosi a sezione romboidale, suggerendo l’immagine del muso di un pescespada. Il corpo del pesce è costituito da una lamina sbalzata, martellata e curvata che termina creando la chiusura della spilla. Un piccolo zaffiro cabochon è incastonato entro il corpo vuoto della testa del pesce a rappresentarne l’occhio. cm.13,2 x 5 x 1,2 1989.
15. OCTOPODE Spilla in argento e calcedonio. Una lamina d’argento, lavorata con tagli, strisce ritorte e granuli applicati, ospita un grande calcedonio” bluetto” , che allude alla sagoma del pesce. cm. 8,5 x 4 x 1,1 1990.
16. FLOWER HOLDER Spilla in argento, portafiori. Questo raffinato gioiello,lavorato a sbalzo e a traforo, è decorato con riccioli d’argento, granuli, filetti e un cuore rovesciato al centro di una superficie ondulata. La spilla rinvia poeticamente ad un occhiello al quale non mancheremo mai di offrire un fiore. cm.10 x 3 x 1.3 1989.
17. PORTASIGILLO Spilla in argento e quarzo. Il gioiello in lamina traforata, è di forma allungata, ricca di linee in movimento e di decori a granuli. Al centro riccioli d’argento trattengono il quarzo che reca inciso uno scorpione. cm.8 x 4,4 x 1,3 1989.
18. FORCHETTA E CUCCHIAIO Bracciali in argento. Due antiche posate- una forchetta e un cucchiaio- sono martellate e ripiegate ad assumere la nuova impensata funzione di bracciali. Forchetta: cm. 2,6 x diam. cm.7 Cucchiaio: cm. 4,7 x diam. cm. 7,5 1972.
19. MA CERTO E’ UN MEZZO CUCCHIAIO Bracciale in argento. Un cucchiaio da tavola, piegato in modo irregolare, sbalzato e martellato in tre punti sul dorso, assume la improbabile nuova identità di bracciale. cm. 4,3 x 6,5 x diam. cm.7 1991.
20. OCCHIO DI HORUS Spilla in argento, ametista tormaline. Il gioiello è composto da lamine di diversi spessori e fili trafilati a mano, saldati. Il disegno si presta a una doppia lettura: in orizzontale un occhio languido ci osserva, mentre in verticale ci si presenta uno stilizzato elemento floreale. Un’ametista costituisce l’iride e due tormaline (una rosa e una verde ) sono incastonate sugli elementi ciliari ( o fogliari). cm. 6,7 x 2,6 Pezzo esposto alla mostra “Amuleti e talismani”, presso la galleria Fattoadarte di Bologna ( 20 aprile- 1 giugno 1991): cfr. S.M. Bondoni – G. Busi, Amuleti e talismani, catalogo della mostra, Bologna, 1991, pg. 38 1991.
21. LO ZODIACO Collana in corallo rosso e oro. Questo gioiello di prorompente vitalità è composto di grani sfaccettati di corallo a gradazione, alternati a placchette ovali in oro sbalzato. Le perle di corallo a tre fili ( che si riducono a due nella parte terminale) sono fermate dalle placchette su cui sono raffigurati i simboli dei dodici segni zodiacali. In particolare, il segno dei gemelli si sdoppia a reggere il gruppo di perle più grosse e centrali, mentre il sagittario crea il fermaglio. cm. 81 x 4 x 1,3 Collezione Ferruzzi.
22. IL BLU E IL GIALLO SE SI PRENDONO PER MANO DIVENTANO VERDI. OH, DAVVERO, NON LO SAPEVA! E INVECE…… Orecchini pendenti in oro, lapislazzuli, smeraldi e brillanti. Due smeraldi cabochon concludono inaspettatamente questa coppia di favolosi orecchini, in cui il preludio è costituito dal blu di due grosse perle in lapislazzuli. Il corpo oblungo del gioiello si copre , in un orecchino, di lamine floreali decorate a granuli, mentre la cintura alloggia sei insospettati brillantini. Nel secondo orecchino la lamina aurea è stata bucherellata e ospita asimmetricamente un brillante incastonato a cesello. cm. 7,6 x 1,6 x 1,5 cm. 7,9 x 1,7 x 1.5 1991.
23. ESISTE LA PERFEZIONE. OVVEROSSIA MANCANZA DI LACUNE. Spilla pendente in oro bianco e giallo, brillante e perla. Una grossa perla scaramazza pende come goccia di rugiada ( o languente pistillo ) al centro di una convessa lamina d’oro, dai contorni fitomorfi, ripiegata a cerchio. Questo elemento vistosamente lunare è solo il culmine (ovvero il punto di partenza) di una complessa struttura ad ispirazione floreale, ove lamine in oro bianco e giallo, sapientemente ritorte in forme concave e convesse, sovrapposte e intrecciate, si saldano a due fili di sezione quadrata, che costituiscono il caduceo di supporto. Il simbolico riferimento al sole e alla luna, sotteso dall’uso dei due colori dell’oro, è rafforzato dalla presenza – quasi al centro della composizione- di un brillante incastonato a cesello. cm. 13,6 x 6,7 x 1.6 Collezione Feroci.
24. CORRE LA PASSIONE Orecchini in oro bianco e giallo Gli orecchini- lavorati a traforo e a sbalzo- raffigurano in oro bianco due visi: uno femminile di fronte e uno maschile di profilo , intento ad osservarlo. Il volto femminile- sorta di piccolo sole dai contorni ondulati- porta due minuscole anelle in oro giallo a mo’ di (ulteriori ) orecchini. Il volto maschile è caratterizzato da lamine sovrapposte a creare una voluminosa massa di capelli. Lei: cm. 3,8 x 3,5 Lui: cm.4 x 3,8 1990.
25. VORREI CHE LA VEDESSE ATTILIO Collana in lapislazzuli e oro. Un rombo in lamina d’oro, sbalzata e traforata, forma la chiusura di questo squisito girocollo a due fili di grosse perle di lapislazzuli. Il traforo nella lamina aurea crea la silhouette di due coppie di libellule aggettanti, separate da un lapislazzuli ovale, incastonato a cesello. Piccoli granuli tra le zampette- assieme a due granuli più grandi agli angoli del rombo- costituiscono una sorta di cesura formale. Quattro elementi cilindrici raccordano la parte superiore col fermaglio propriamente detto. cm. 41,5 x 3,3 x 1,5 1991.
26. LA PAPERETTA DI VERUCCHIO. 3 Orecchini in oro e corallo rosa. Una perla di corallo rosa regge il pendente ovale in oro sbalzato. Una sinuosa paperetta ( di ispirazione archeologica) col becco puntato verso l’alto, decora ciascuno dei pendenti. Una piccola spirale in filo aureo orna la base degli ardiglioni. cm.6 x 2,3 x 1 cm. 6,2 x 2,4 x 1 1991.
27. LA PAPERETTA DI VERRUCCHIO. 2 Collana in corallo rosa e oro. Un filo di grosse perle di corallo rosa a gradazione regge un pendente creato da una lamina ovale di oro sbalzato. Il pendente, di vistose dimensioni, reca l’immagine di una paperetta con un lungo collo sinuoso ( di archeologica memoria ). Da notarsi la notevole altezza del rilievo, ottenuto sbalzando- dal diritto e dal rovescio- una lamina aurea di cm. 0,05. L’immagine della paperetta , appena accennata, compare anche sulla chiusura. cm.48,2 x 4,7 x 1,5 1991.
28. LA PAPERETTA DI VERRUCCHIO. 1 Orecchino singolo pendente in oro. Su una lamina aurea lavorata a sbalzo con tecnica mista ( repoussè e cesello ) si accampa l’elegante silhouette della paperetta. Il soggetto archeologico – derivante dalla tomba dei Principi di Verucchio – colpisce per la linearità e l’essenzialità del disegno, fortemente valorizzati dall’interpretazione contemporanea. Il gancio di sospensione, sovradimensionato, diviene anch’esso elemento scultoreo e parte non accessoria del gioiello. Pendente: cm. 7 x 3,7 x ,5 Gancio : cm. 9,3 x 1,2.
29. IL DESTRO E IL SINISTRO. Orecchini in oro, brillanti e perle. Un filo d’oro trafilato e ripiegato a mezzaluna alloggia una perla: Bianca in un orecchino, nera nell’altro. Circondata dalla mezzaluna, la perla si pone al centro del lobo, mentre sotto di essa- un grano in oro ospita un brillantino incastonato a scudetto. cm. 3 x 2,3 x 2 Collezione Corelli Grappadelli 1991.
30. LA VIPERA CORNUTA. Anello in oro, brillanti e perle. Il gioiello si crea da un filo d’oro che si avvolge su se stesso. Ad un capo della spirale si appoggiano due perle di differente grossezza, la maggiore nera e la minore bianca. All’altro capo, al centro di un grosso grano d’oro, occhieggia un brillante incastonato a scudetto. cm.3,5 x 2 Collezione Corelli Grappadelli 1991.
31. TRIONFO Spilla in argento e lapislazzuli. Una lamina d’argento traforata e sbalzata si intreccia con fili d’argento a creare un ricco e sovradimensionato bouquet dalle forme stilizzate. Un lapislazzuli si posa sul fiore più alto. cm.17,8 x 9,6 x 1,8 1989-1991.
32. LEONE Fermacapelli in argento. Su una lamina di argento lavorata con tecnica mista ( a repoussè e a sbalzo con particolari a cesello ) si accampa l’immagine leonina archetipica, zodiacale, magica. cm. 7,6 x 5,1 x 0,7 Pezzo esposto alla mostra Amuleti e talismani presso la galleria Fattoadarte ( 20 aprile-1 giugno 1991). Cfr. S.M. Bondoni – G.Busi, Amuleti e talismani, catalogo della mostra, Bologna, 1991,p.38). 1991.33.MULTIVOLO Ciondolo-scultura in argento . Due antichi cucchiaini da tavola, piegati, martellati e intrecciati tra loro, perdono la loro funzione trasformandosi in scultura- pendente. cm.9,5 x 5,5 x 2,5. 1991 34. MEMORIAE TRADERE ORECCHINI PENDENTI IN ARGENTO E ORO. Due Antichi cucchiaini d’argento sono piegati e lavorati in modo da essere trasformati in grandi e decorativi pendenti. cm. 9,4 x 2,9 x 1,9 cm. 7,5 x 2,9 x 2,6 1991.
Imelde Corelli Grappadelli nasce a Lugo il 13 novembre 1955, prima di cinque fratelli. Si laurea in Storia antica presso l’Università di Bologna, con una tesi sperimentale su Elementi della tecnologia dell’oro nell’antichità, frequentando i musei e scrutando i reperti. Uno dei suoi rovelli è la ricerca sulla granulazione (specialmente usata dagli Etruschi), di cui si era persa la memoria tecnologica: Unica allieva del laboratorio orafo bolognese Renazzi-Ferri, apprende dagli anziani maestri tutti i segreti dell’arte, verificando così , sul banchetto, la teoria. Una prima mostra al museo Civico archeologico di Bologna nel 1987-1988 è seguita da altre collettive presso il Circolo artistico( 1989, 1990, 1991) e presso Fattoadarte ( Amuleti e talismani, 1991), nella medesima città. Vive a Bologna. Attualmente ha smesso di fumare e gioca a bridge il venerdì sera.
Eva Bonifazi
MODA – UNA COLLEZIONE MOLTO APPREZZATA
di Eva Bonifazi, Il Resto del Carlino – Porto San Giorgio – Venerdì 10 settembre 2004
Gioielli, presentata in città la linea griffata Imelde Corelli. P. S. Giorgio – Si tratta di una vera e propria polifonia cromatica la nuova collezione di gioielli dell’artista bolognese Imelde Corelli Grappadelli, presentata a P. S. Giorgio. Ad ammirare l’ultima linea griffata “Imelde Corelli”, alcune signore della Lega Navale e i suoi fedelissimi clienti. “Per questo nuovo marchio ho pensato – confessa Imelde – a una donna trentenne dinamica, pena di voglia di vivere”. È per questo che ho associato l’argento, metallo lucido e giovane, al quarzo rutilato, con infiltrazioni naturali di altri minerali che rendono ogni pezzo unico e originale. Dai girocolli formati di anelli d’argento, quasi a ricordare i giochi olimpionici, alle collane di acquamarina, smeraldo, tormalina nera e ametista fino agli anelli ‘Paco’ e ‘Pachito’, che grazie a una montatura lungamente progettata liberano nelle tre dimensioni la pietra, divenendo oggetti fascinosi. Ma Imelde ha pensato anche all’uomo in carriera. È per lui che nascono i gemelli formati da pietre geometriche e chiusure in oro, la lunga catena portacellulare e perfino porta banconote che può fungere anche da portachiavi. Insomma, una collezione magica che fa ancora sognare.
Marisa Briata
LE MANI DI SHIVA
Marisa Briata, 1994
Le mani di Shiva è il titolo della serata che il Cabaret Voltaire di Bologna dedicherà all’orafa-artista nonché ricercatrice bolognese, Imelde Corelli Grappadelli, il 30 marzo. Il critico Gian Ruggero Manzoni presenterà le opere di gioielleria e le sculture patafisica dell’artista bolognese, che rappresentano la sua più recente produzione. Con esse Imelde Corelli Grappadelli tenta di ricondurre la gioielleria da un ruolo di secondo piano ad arte maggiore. Ricordiamo, infine, che l’artista scrive da diversi numeri su Italia Orafa curando tra l’altro la rubrica Archeogioielli.
Giulio Busi
ABRAXAS ANTICHI SIGILLI E PIETRE MAGICHE INCISE IMELDE CORELLI GRAPPADELLI PER FATTOADARTE
Con uno studio sulla glittica sasanide a cura di GIULIO BUSI, 1992
Introduzione LA GLITTICA SASANIDE
Le immagini graffiate sui sigilli sasanidi ci fissano enigmatiche, protette dalla distanza di centinaia e centinaia di anni, prese in una realtà remota e per noi quasi inattingibile. Queste piccole figure, e le pietre multicolori che le ospitano, ci lanciano una sfida. Ci invitano a capire, ad afferrare il significato che quei tratti brevi e nervosi ebbero più di quindici secoli fa, a restituire ai colori e ai simboli il calore che un tempo seppero emanare. Se vogliamo accettare questa sfida , dobbiamo essere pronti a combattere con la mente e con il cuore. Dobbiamo essere disposti a lasciarci trascinare dal gran fiume delle leggende antico-persiane, e a seguire le vicissitudini dei personaggi che le popolano. Dobbiamo essere disposti a lasciarci trascinare dal gran fiume delle leggende antico persiane, e a seguire le vicissitudini dei personaggi che le popolano. Dobbiamo divenire familiari con cavalli alati, diavoli minacciosi, dignitari dall’aria un poco equivoca, veloci antilopi dalle lunghe corna . Dobbiamo ripetere i gesti ieratici dei sacerdoti di Zoroastro , intenti al rito dianzi all’altare del fuoco. Ma tutto questo non basta. L’arsenale dell’erudizione, pure prezioso, non è sufficiente per vincere il silenzio di sfida delle nostre piccole pietre. In queste gemme multicolori, di forma inconfondibile, si celano le vestigia di una cultura remota, rimasta quasi silente per moltissimi secoli. Erede ultimo della potenza persiana, il dominio sasanide si estese per quattro secoli (dal III al VIII d.c.) su gran parte del vicino Oriente, sino a comprendere- al suo apogeo- un vastissimo territorio, dall’odierno Afganistan fino a Gerusalemme: Cancellata repentinamente dalla conquista islamica , la memoria di quella intensa stagione culturale è attestata in primo luogo dai reperti della cultura materiale: cultura di incontro e di scambio, terreno di tradizioni millenarie. Come l’impero sasanide raccoglie genti di stirpi e di retaggi diversi, così i sigilli di quell’epoca narrano credenze che talvolta si oppongono, talaltra si integrano e si fondono. Protetta da quel misterioso sovrapporsi di fantasie religiose e di riti misterici che affolla la tarda antichità, la credenza sul valore magico delle pietre venne ad assumere, sotto il dominio dei sasanidi, una straordinaria diffusione; i sigilli incisi venivano indossati e tenuti presso di sé da tutti: a partire dal sovrano per finire con il modesto contadino. Perdere o rompere il proprio sigillo costringeva a numerosi atti di scongiuro e di riparazione. Centinaia e centinaia di anni fa , questi sassolini furono compagni fedeli delle inquietudini e delle speranze di altri uomini, dal loro cuore trassero la forza misteriosa che ancora li pervade, e che dobbiamo saper ravvivare. Per superare d’un tratto l’enorme vuoto di fatti e accadimenti che ci separa dal mondo orientale del primo millennio dopo Cristo, è necessario fare ricorso alla guida sicura dell’immaginazione, all’intuizione che viene dal cuore e che punta dritto all’anima della storia. E’ per questo che, accanto ai volumi pahlavi e al catalogo paziente di immagini e di materiali, le pietre di questa collezione sono affidate alla fantasia di un’artista, che porta a compimento l’interpretazione della storia che la filologia ha avviato. Imelde Corelli Grappadelli, orafa e storica, costringe questi sigilli ad uscire dal loro silenzio. Montandoli in oro, restituisce loro voce: dopo molti secoli essi vengono indossati di nuovo. Con ciascuno di essi s’instaura un dialogo preciso: talvolta vengono lusingati assecondandone la forma, talaltra vengono presi e caricati della forza del materiale prezioso. Il colore, il peso, l’immagine incisa e persino l’usura propria di ogni pezzo chiedono di essere ascoltati ed interpretati. Per questo sono necessarie la sensibilità e la mano di un artista, per questo ogni pezzo deve essere unico e irripetibile, così come irripetibili sono la forma e la storia di ogni pietra incisa.
UN IMPERO SCOMPARSO
Una notte d’autunno del 652 d.c., Yezdegerd III – il re dei re, l’ultimo sovrano sasanide- veniva ucciso dal mugnaio presso il quale si era rifugiato per trovare un breve riposo. Era l’atto finale di una vicenda storica rapidissima , dalle conseguenze straordinarie. In una quindicina d’anni, le truppe mussulmane avevano spazzato via un impero durato secoli, e cancellato per lungo tempo ogni supremazia militare e politica del popolo persiano. L’impeto dell’Islam travolgeva in un soffio quella gloriosa compagine statale che aveva saputo tenere testa all’impero romano, e che era riuscita a sopravvivere alla stessa potenza romana. Il re fuggiasco ultimo erede di una dinastia salita sul trono nel 226 della nostra era, rappresentava una realtà che era stata un tempo assai solida, e che era poi entrata in una crisi tragica ed irreversibile. Assieme allo stato sasanide, la nuova cultura mussulmana abbatté e quasi cancellò la religione zoroastriana, che di quello stato era cardine culturale ed ideologico. Tutto un mondo religioso, la stessa classe dei sacerdoti dediti al culto del fuoco, vennero ad un tratto messi da parte, privati della legittimazione ufficiale, costretti ad una sopravvivenza marginale e stentata. Certo, l’eredità di una cultura millenaria non poteva essere recisa di colpo, né riuscì agevole sradicare i valori trasmessi da una ininterrotta tradizione: le credenze e i riti propri delle popolazioni vicino-orientali continuarono ad allignare per secoli, e a convivere con la generale accettazione della fede cranica; i personaggi del folklore rimasero vivi nella coscienza collettiva, e i demoni persiani continuarono a svolgere le loro funzioni tradizionali, affollando le visioni dei mitici musulmani. Ma molto di quanto caratterizzava la vita precedente scomparve, e quello che si conservò assunse sovente una forma dissimulata, sopravvisse in aree marginali o si celò sotto spoglie mentite. Così come i pochi seguaci superstiti di Zoroastro finirono per trovare ricetto e per prosperare lontano dalla Persia musulmana , nella più tollerante India (dove ancor’oggi costituiscono la fiorente comunità Parsi), molte delle tradizioni antiche conobbero un’eclissi più o meno definitiva, o rimasero patrimonio di ristrette cerchie esoteriche. E’ quanto avvenne – tra l’altro – per le dottrine sul significato astrologico delle gemme , che tanto peso avevano avuto nel vicino oriente per millenni. Lo stesso uso delle gemme incise con soggetti animati, come altre forme dell’arte sasanide, cadde quasi in abbandono, sotto l’impatto dei rigidi precetti aniconici dell’Islam. Ciò non significa che tali tradizioni venissero completamente meno, tutt’altro. Venne però rapidamente meno la loro forza creativa, così come scomparve in breve tempo chi era in grado di graffire con perizia le pietre stesse. La memoria del significato dei sigilli figurati, e la passione per la strana realtà che essi testimoniavano rimasero a poco a poco appannaggio di pochi eruditi, o di qualche settario in odore di eresia. Le pietre intagliate smisero di essere un corredo del vivere quotidiano e cessarono di accompagnare i gesti, le speranze, le paure degli uomini e furono relegate ai testi di gusto antiquario, agli studiosi sul passato che pure fiorivano rigogliosi nelle lettere arabe.
L’Iconografia
Per ricostruire oggi il significato di quelle gemme, è innanzitutto necessario affidarsi all’elemento che ne costituì il tratto peculiare,e che ne determinò il successivo abbandono: l’iconografia. L’universo cui tale iconografia attinge è estremamente ricco e caratterizzato dalla frequente sovrapposizione di temi fra loro affini. Si ha sovente l’impressione che le immagini si avvalgano di una sorta di doppio, che gli spunti figurativi siano come rafforzati da un significato ulteriore di norma afferente alla sfera magico-astrologica. L’ambiguità dell’immagine carpisce progressivamente l’attenzione dell’osservatore. La rappresentazione, che a prima vista pare di semplice ispirazione naturalistica, si complica di particolari inattesi, le fisionomie di sdoppiano o si triplicano, le immagini si dispongono in simmetrie enigmatiche , i personaggi raffigurano se stessi, ma anche una sorta di fantastico alter-ego. La complessità di tale iconografia rende ragione delle difficoltà che si incontrano nel tentare di descriverla e anche delle contraddizioni e delle divergenze d’interpretazione: l’interpretazione è contraddittoria perché lo è il dato di fatto, perché le immagini raffigurate sui sigilli hanno una mobilità e una polisemia che ci induce ad accostarle all’esperienza onirica. L’icnografia sasanide riflette la complessa dinamica di sedimentazione che caratterizza la cultura vicino-orientale nella tarda antichità, e da tale sedimentazione trae la propria straordinaria forza evocativa. L’antico retaggio mesopotamico, l’avventura ellenistica , gli inquieti culti misterici, la gnosi: tutti questi elementi sono reali, compresenti e vitali, ribelli a qualsiasi definitiva sistemazione gerarchica: la glittica di quest’epoca è il prodotto maturo e vero di una lunga storia, intimamente sentita nel corso di generazioni e generazioni.
Abraxas
Abraxas, divinità gnostica scaturita dalla fantasia dell’eresiarca Basilide (II sec. d.c.), potrebbe parere per certi versi estranea al mondo sasanide. Ma così come la gnosi ebbe con il manicheismo prima , col mazdakismo poi, due fondamentali tappe iraniche, il singolare e potentissimo Abraxas- simbolo dei 365 cieli- trovò accoglienza, e forse, mosse addirittura i primi passi in terra persiana. A favore di queste ipotesi, che si avventurano in un campo di indagine ancora in parte inesplorato, testimoniano diversi ordini di ragioni. Innanzitutto, il motivo di una divinità sintesi di altri dei, corrispondenti alle divisioni del tempo( in questo caso, ai giorni dell’anno) è di origine persiana, e della sua ascendenza conserva memoria nell’iranicissimo nome di Mitra, che- secondo la testimonianza di Gerolamo- veniva alternato a quello di Abraxas, cui corrispondeva per valore numerico Assai importante è altresì l’attestazione, rinvenuta nel corso della presente ricerca, di un immagine di Abraxas graffita su di un sigillo di indiscutibile tipologia sasanide. Sulla superficie di un calcedonio nerastro campeggia enigmatica la figura composita di Abraxas: la testa di gallo, il busto umano, le gambe di serpente. Mancano lo scudo e il bastone, ma la raffigurazione pur compendiarla, non lascia dubbi. Immagine del “pleroma”, Abraxas è l’uno che comprende in sé il tutto, e bene si presta a questa funzione un essere il cui nome si esprime la somma di tutti i poteri che lo compongono: il valore numerico delle lettere greche che formano la parola Abraxas è infatti 365, ed equivale al numero degli eoni emanati dalla prima causa. Abraxas , che ci è famigliare attraverso la glittica gnostica del II secolo d.c., è dunque presente anche nel meno noto mondo sasanide. Ma non basta, la stessa composizione dell’immagine, la sua natura di “pantheus”, di divinità costruita con attributi di altre divinità, ci riporta alla tradizionale complessità e stratificazione iconografica sasanide. Non a caso, un parallelo interessantissimo all’immagine di Abraxas è offerto da una gemma sasanide conservata all’Ashmolean Museum di Oxford (Gignoux-Gyselen,1987,n.Amo 30.115). Si tratta anche in questo caso di una figura composita, nella quale quatto diverse teste sono disposte simmetricamente l’uno all’altra : un bue, un cervo, un ariete e un uccello. Partecipe forse di una simbologia astrale, questa pietra rivela il medesimo registro fantastico cui attinge la costruzione di Abraxas,è, per così dire, costruita secondo la stessa sintassi visionaria che ispira la nostra divinità gnostica.
Gayomard
Chi conosce le pietre sasanidi sa che un motivo iconografico spicca sugli altri per singolarità e forza evocatrice, così come le gemme che l’accolgono si fanno ricordare per le loro eccezionali dimensioni. Si tratta della potente immagine di Gayomard. “Gayomard, l’uomo benedetto, splendente come il sole: la sua altezza era di circa quattro cubiti, e la sua larghezza uguale alla sua altezza” ( Bundahishn 1,27: trad. Zaehner, !976,p.28 ). Immagine umana e ferina contemporaneamente, Gayomard si squaderna a gambe e braccia aperte sulla levigata superficie della pietra. Il volto e le cosce vengono designati con tratti decisi, inconfondibilmente tesi a raffigurare una prorompente villosità. Orecchie appuntite da belva si dipartono da un volto compendiariamente designato con il forte segno della croce. Ancora due croci, ma questa volta indicano le mani, che afferrano ciascuna un lungo bastone, alto quasi come Gayomard stesso . Ai piedi della figura i consueti tratti, stilizzati ma precisi, riportano l’immagine di un cane, che nella sfragistica diviene compagno inseparabile del possente uomo primigenio. Proprio questa ultima immagine suggerisce altre stratificazioni di significato: il cane è anche compagno di Orione, l’importante costellazione prossima all’equatore. “…Nessuna stella vicina designerà meglio l’eroe delle fiamme sparse su tutto il suo corpo: tanto ardono il suo capo, le sue larghe spalle e la cintura, tanto rilucono il fodero della spada e il suo piede veloce: Tale ugualmente apparirà il suo cane guardiano dalla bocca temibile…”(Arati phaenomena, 329-332). L’universo visionario dell’alessandrino Arato, e del suo interprete, il principe germanico. Ben si addicono al complesso simbolo tradito dai sigilli sasanidi. Gayomard è Orione , e Orione è Gayomard, come impone quello statuto di sovrapposizioni simboliche di cui siamo venuti sopra discorrendo.
Re Gopat
Altra raffigurazione intrigante è quella del re Gopat, dal corpo taurino e dalla testa umana. Un tranquillo profilo di dignitario coronato è accostato al corpo dell’animale, trasfigurato per altro dalla presenza delle ali. Narra la leggenda che Gopatshah “è bue dai piedi a metà del corpo, mentre è uomo nella metà superiore.Sta seduto sulla riva del mare, ove, senza posa, officia un rito sacro, versando nel mare acqua benedetta: Grazie a tale rito muoiono innumerevoli creature perniciose: Se infatti non celebrasse questo cerimoniale e non versasse l’acqua santa nel mare uccidendo le creature malvagie, queste ultime, al cadere della pioggia, precipiterebbero (sulla terra)
Rito del fuoco
Da questo rito leggendario al rito quotidiano celebrato dianzi all’altare del fuoco: dal re Gopat ai magi – i sacerdoti zoroastriani. La raffigurazione del dio si trova in almeno tre varianti: il sacerdote, solo o in coppia davanti all’altare, o l’altare isolato, spesso rappresentato in maniera compendiarla. Si tratta per altro di uno dei momenti centrali della religione zoroastriana, le cui motivazioni mistiche sono bene riassunte da un testo pahlavi:”E’ necessario recarsi il più spesso possibile alla dimora del fuoco, ed eseguire con riverenza il saluto del fuoco. Tre volte al giorno, infatti, gli arcangeli si riuniscono in assemblea nella dimora del fuoco, ed eseguire con riverenza il saluto del fuoco, e vi diffondono opere buone e giustizia: siffatti benefici trovano più facilmente albergo in colui che si reca sovente colà ed esegue con reverenza molti saluti al fuoco”.(Pahlavi texts,188°-1897,v.5,p.3
Rashnu
Suscettibile di diverse interpretazioni è una figura umana, ritratta di profilo, dotata di ali- talvolta con la parte inferiore del corpo di un volatile- e recante in mano un oggetto la cui natura può di volta in volta, essere identificata con una bilancia, un elemento vegetale o il diadema a fasce tradizionale dell’iconografia sasanide. Se la lettura più diffusa di tale soggetto è quella di una personificazione della vittoria, un’altra possibile ipotesi è la rappresentazione dell’angelo Rashnu, che pesa le azioni dei morti, giunti al giudizio oltremondano, con la propria bilancia d’oro” che non favorisce parte alcuna, né il pio né il malvagio, né i signori né i sovrani. Non scarta neppure d’un capello, né propende ingiustamente: il signore e il monarca sono considerati alla stregua dell’ultimo tra gli uomini”(Pahlavi Texts, 1880-1897,v.24,p.118)
Tamga
Singolare e per molti versi enigmatico rimane, per l’osservatore contemporaneo, il ricco repertorio di quelle insegne che, con termine seriore, mutuato dal turco, vengono definite Tamga. Si tratta di simboli di possesso, di lontana origine tribale, sovente elaborati sotto l’influsso astratto della scrittura. Costruiti secondo una regolare tripartizione antropomorfica – capo, corpo, piedi – i tamga presentano innumerevoli combinazioni di alcuni elementi fondamentali: la mezzaluna, simbolo che nel vicino oriente godette di fortuna millenaria, il cuore, diritto o rovesciato, la bilancia, la testa d’ariete o di lepre, alcune lettere dell’alfabeto antico-persiano. Quello che è sorprendente, e che suggerisce un’inattesa modernità di queste insegne, è proprio la compresenza e la fusione di disegni e di lettere, e lo scambio funzionale tra elementi appartenenti alle due sfere. Si assiste, nei tamga a un animarsi delle lettere dell’alfabeto pahlavi e alla loro trasformazione in puri spunti grafici, con una facilità che non può non richiamare alla mente i meccanismi visionari della “qabbalah” ebraica e gli espedienti figurativi della micrografia medioevale.
Raffigurazioni animali e vegetali
Le raffigurazioni che abbiamo fino qui discusso sono tutte legate al mondo della fede zoroastriana, che dello stato sasanide costituiva la religione ufficiale: Ma così come questa supremazia politica e militare dell’elemento iranico non significò assoluto dominio culturale, i motivi legati alla tradizione persiana non esauriscono da soli l’iconografia della glittica dell’epoca. Accanto a Gayomard, al re Gopat, ai ritratti dei dignitari, agli altari del fuoco e agli altri simboli zoroastriani, incontriamo infatti frequentemente, sulle gemme incise, raffigurazioni di animali-Buoi, antilopi, uccelli,pesci-di fiori e di piante, ed è logico pensare che questi soggetti iconografici meno specifici venissero utilizzati anche dalle numerose minoranze che vivevano entro i confini dell’impero. In quei tempi, il ricorso ai sigilli figurati era peraltro generale,e accomunava zoroastriani e cristiani, ebrei a manichei. Quell’importantissimo monumento della cultura d’età sasanide che è il Talmud babilonese ci testimonia della fortuna che i sigilli godevano presso le comunità ebraiche, fiorenti soprattutto nei territori dell’antica Mesopotamia. Un passo del trattato “Gittin”(36r) elenca le “firme” di alcuni celebri dottori ebrei: “Rav era solito firmare con un pesce, rabbi Hanina con un ramo di palma, rabbi Hisda con la lettera ebraica samek, rabbi hoshaya con la lettera ‘ ayin e Rabah, figlio di rabbi huna, con una vela”. Anche i diavoli, nell’immaginazione giudaica, usano i sigilli. Leggiamo infatti, sempre in Gittin (68r): “Ashmeday, il principe dei demoni, viveva in una certa montagna. Aveva scavato colà un pozzo, che aveva riempito d’acqua, rinchiuso con una pietra e sigillato con il proprio sigillo. Ogni giorno saliva in cielo per studiare nell’accademia celeste, poi scendeva a terra, per frequentare l’accademia terrena. Faceva poi ritorno, esaminava il proprio sigillo, apriva il pozzo e bevevo; quindi lo richiudeva, lo sigillava nuovamente e se ne andava. Salomone inviò là Benayahu, figlio di Yehoyada, dopo avergli dato una catena, sulla quale era marcato il nome di Dio, un anello, che parimenti recava inciso il nome(ineffabile), fiocchi di lana e bottiglie di vino. Benayahu giunse colà, scavò un pozzo nella montagna, più a valle, e vi fece scorrere l’acqua. Chiuse poi il pertugio con dei fiocchi di lana, scavò un nuovo pozzo a monte e vi versò il vino, fino a riempire quello e l’altro sottostante. Andò poi ad acquattarsi su di un albero. Quando Ashmeday fece ritorno, esaminò il sigillo ed aprì il pozzo e lo trovò pieno di vino. Egli esclamò: “E’ scritto: schernitore è il vino, tumultuosa cosa la bevanda inebriante: chiunque se ne diletti non è saggio” (prov. 20,1) ed anche “prostituzione, vino e mosto afferrano il cuore” (os.4,11). Non lo berrò”.Tuttavia quando gli venne sete, non poté resistere, e bevve sino ad ubriacarsi: cadde quindi addormentato. Allora Benayahu scese e gli serrò attorno la catena. Risvegliatosi, Ashmeday prese a dibattersi, ma l’altro esclamò: “Il nome del tuo signore è su di te, il nome del tuo signore è su di te!”. Non è tuttavia solo il principe dei diavoli ad avvalersi dei sigilli. In un gruppo di scritti mistici ebraici d’età tardo antica- elaborato probabilmente in ambito sasanide- il sigillo diviene addirittura un fondamentale attributo del Dio d’Israele. Recita un’invocazione contenuta in uno di tali testi: “Benedetto sei tu,o Dio, che dai ascolto alla preghiera. Signore dei misteri, che sigilla ogni segreto. Colui che sigilla quelli che ricordano il suo nome , sigillo su tutti i sigilli, possente su ogni sigillo” (Cohen,1985,p75). Una vertiginosa e splendida visione- tratta dalla stessa letteratura mistica- così descrive il Signore: “Davanti a Lui, nebbia e fango; e poi un campo,ove sono disseminate le stelle. Tra stella e stella, uno spazio tenuto da lampi: ogni lampo è scaturigine d’elettro. Al di sopra spiriti che portano i lampi, voci di nuvole e tuoni e anelli d’arcobaleno: Su di lui grazia, misericordia, onore, splendore, bellezza, maestà e grandezza: anello del leone, sigillo dell’aquila, l’immagine del toro e un volto d’uomo inciso”.(ibidem,p.39). Sono testimonianze che affiorano da un passato di intensa emozione visionaria,da un mondo in cui i sigilli costituivano un’entità magica realissima e di grande importanza. Recuperarne oggi il significato è una rilevante acquisizione culturale e allo stesso tempo, una scoperta interiore, capace di restituirci, attraverso la padronanza di un ricchissimo patrimonio simbolico, un più completo dominio della nostra facoltà d’immaginare il mondo
CATALOGO DEGLI ABRAXAS
I. spilla in oro con sigillo sasanide in goethite. Il gioiello è stato realizzato con un verguccio a sezione quadrata, martellato, riscaldato e piegato a formare un’ampia fibula. Leggermente decentrato, il sigillo, che reca la raffigurazione di Abraxas, è bloccato tra due laminette d’oro a forma di coppe. Numerosi particolari arricchiscono la linearità del disegno: una spirale a due volute conduce al perno dell’ago; il perno afferra l’ago che si muove ad onda; un breve filo ritorto si accampa a sinistra della pietra; gli elementi del perno si pongono asimmetricamente rispetto alla pietra. mm.7.1×4.5×1.7
II. Girocollo in oro con sigillo sasanide in calcedonio. Un filo trafilato a mano, dello spessore di un millimetro, costituisce il gioiello, dando forma ad una circonferenza sulla quale scorrono due elementi mobili tra loro intrecciati a mo di pendente. La configurazione di tale pendente richiama in modo stilizzato l’immagine di Gayomard, quale è incisa sul grosso sigillo sospeso. Girocollo:diam.mm.135. Pendente:mm.55x25x25
III. Bracciale in oro con sigilli sasanidi in calcedonio-agata e diaspro. Una treccia in oro a tre fili si attorciglia elasticamente a spirale per formare il bracciale. Un sigillo sasanide-recante incisa la figura di Rashnu – si trova ad un capo del gioiello, alloggiato e preso nei fili della treccia che ne lasciano libero il movimento. All’altro capo, a raccordo mobile tra gli elementi del bracciale, si trova il secondo sigillo in diaspro-raffigurante un’antilope- montato su perno. mm.390 x 25.
IV. Bracciale in oro con sigilli sasanidi in calcedonio-corniola. Il gioiello è costituito da una treccia in oro a tre fili, chiusa da un perno mobile sul quale ruota un sigillo.Il secondo sigillo , montato a ciondolo, si muove lungo l’ultima maglia della treccia, decorativamente allargata. Su entrambe le pietre è inciso un profilo maschile. mm.14 x diam.mm.65
V. Bracciale in oro con sigilli sasanidi in calcedonio-corniola. Una treccia d’oro a tre fili si attorciglia elasticamente a formare il bracciale. Un sigillo- recante inciso monogramma araldico- si muove liberamente ad un capo del gioiello, che termina a nodo decorato con un grano. Il secondo sigillo- con inciso un uccello- si trova su un perno che funge da raccordo mobile tra gli elementi del bracciale. mm.275 x 25.
VI. Orecchini pendenti in oro con sigilli sasanidi, l’uno in calcedonio corniola, l’altro in diaspro. I due orecchini, di forma simile ma non identica, recano nella parte superiore una coppetta in lamina sbalzata con un granulo centrale. Il pendente è costituito da una cannetta a corpo vuoto che si richiude a staffa: nell’orecchino con corniola- che reca inciso un profilo maschile- il foro pervio è traversato da un appiccagnolo saldato su cannetta; in quello con diaspro- raffigurante un’ antilope- la pietra resta sospesa a ciondolo. In entrambi i casi viene mantenuta la frontalità dell’immagine incisa. Orecchino con pendente in corniola: mm.41 x 12 x 12 Orecchino con pendente in diaspro : mm.46 x 13 x 11.
VII. Pendente in oro con sigillo sasanide in bronzo. Il pendente è composto da una serie di laminette di spessore sottilissimo, ritagliate e sbalzate a forma di piccole coppe. Poste sopra e sotto la pietra lungo l’asse verticale, lasciano libero il movimento del sigillo, che raffigura un cavallo alato. Le lamine sono saldate e assemblate tra loro in modo da consentire un’emissione di suoni per percussione tra oro e bronzo. Il corpo di sospensione è caratterizzato da una larga anella in filo tripartito, sormontata in alto da una anellina di puro valore decorativo. mm.45 x 19 x 12.
VIII. Pendente in oro con sigillo sasanide in calcedonio bianco Una lamina d’oro curvata a cilindro- la cui chiusura è sottolineata da un filo d’oro saldato- si appoggia sulla pietra, raffigurante uno zebù. La mobilità del gioiello è assicurata da un perno che attraversa i vari elementi e si conclude con una piccola semisfera. mm. 39 x 14 x 14.
IX. Pendente in oro con sigillo sasanide in calcedonio. Lo spesso filo d’oro, tondo e trafilato a mano, si ripiega su se stesso in forma ellittica inglobando in sé la pietra (che reca inciso uno zebù ) senza privarlo del movimento di rotazione. Due anelle tonde si aggiungono al disegno: l’una a formare la contromaglia, l’altra a coronamento della pietra. mm.40 x 23 x 11.
X. Pendente in oro con sigillo sasanide in calcedonio- corniola. Il gioiello è realizzato mediante un verguccio a sezione quadrata, martellato, riscaldato e piegato a forma d’omega. Le due anse alloggiano i perni che tengono la pietra, sulla quale è incisa un’antilope. mm.39 x 295 x 15.
XI. Anello in oro con sigillo sasanide in goethite. L’anello è realizzato da un verguccio a sezione quadrata, martellato e riscaldato, terminante con due anse che alloggiano il perno sul quale ruota il sigillo, raffigurante due leoni contrapposti. La strozzatura dell’anello è saldata e ricoperta da un filo. mm.15 x 22 x 4.
Massimo Cataldi
L’IMEDLE
Massimo Cataldi, 1992
Sono andato dall’Imelde per visitare il suo studio. Ne avevo sentito parlare “bene”. Sono andato spinto dalla curiosità. Non avevo mai visto pubblicità, non avevo idea di che cosa creasse. Ora indosso solo”miei” gioielli. Si miei e di nessun altro. E’ stata questa la scoperta più eccitante. L’Imelde non crea gioielli,non crea pezzi unici, crea proiezioni in oro del tuo corpo, della tua personalità e come tali sono completamente tuoi. Come un ritratto. Imelde Corelli Grappadelli nasce una domenica pomeriggio sotto il segno dello Scorpione a Lugo, cuore della Romagna, dal ceppo Corelli che diede i natali al musicista Arcangelo. Nel suo sangue scorre l’arte, la melodia. “Ho sempre desiderato essere orafa- mi confida- da piccola amavo giocare con i gioielli di mia nonna Imelde e ne rimanevo attratta in modo estatico: la tradizione di famiglia mi ha indirizzato verso studi classici, quindi la maturità classica, laurea in Storia Antica ,abilitazione in Storia dell’Arte. Contemporaneamente studiavo musica col maestro Sarti e pittura con i maestri Bassura , Avveduti, Savini. Poi gli anni meravigliosi nella bottega dei maestri orafi bolognesi Feri e Renazzi. Mentre Ferri mi insegnava a tirare il filo o a saldare col cannello ferruminatore mi raccontava della sua giovinezza, di quando militare nella Grande Guerra era stato destinato come autista a Gabriele D’Annunzio, e poi di Bologna. C’era una Bologna di notte famosa per i suoi caffè che chiudevano solo mezz’ora al giorno. Vivevo una dimensione sospesa tra la realtà e la favola e l’unico cruccio era il tempo che volava via sempre troppo in fretta. La voglia di conoscere e compenetrare lo spirito dell’oreficeria li ho soddisfatti con lo studio delle fonti antiche e con l’analisi strutturale dei pezzi più significativi delle raccolte museali italiane fino a farne l’argomento della mia tesi di laurea. Un altro periodo importante della mia vita l’ho trascorso a studiare e sperimentare la tecnologia della granulazione: minoica, egizia ed etrusca . Oggi sono pienamente soddisfatta di questa ricerca, infatti ho sperimentato con successo la mia teoria esponendola al museo civico di Bologna”. Il sapore dell’atelier dell’Imelde è quello di uno studio d’arte: fin dal primo momento si percepisce di essere con un’artista e ci si sente a proprio agio, come se si incontrasse un’amica di vecchi data. Il discorso che subito si instaura volge quasi inevitabilmente sull’arte e si scopre con piacere che si può parlare di pittura piuttosto che di scultura, e di poesia piuttosto che di lettura, con un piacere profondo di farlo. Il gioiello si ” materializza ” così mentre parliamo. L’idea del gioiello che poi sarà. L’Imelde mi studia, mi chiede cose, mi osserva, guarda le mie mani, le mie scarpe, le mie unghie e vuole sapere qual è il colore che amo. Mi sento analizzato, studiato, ma mi colpisce la grande concentrazione e gioia che c’è nell’attesa. L’Imelde ama definirsi pittrice-orafa, perché i suoi lavori sono proiezioni naturali vissute in tutti i colori dell’oro. Le diverse leghe diventano i pigmenti con cui crea spazi d’oro. Pittrice-orafa perché ha bisogno del colore e del calore che questa materia sa dare. “E’ una questione di pelle” dice l’Imelde -“Quando si entra in sintonia con l’oro si sta bene”. Il colore giallo diventa calore perché il tipo di lavorazione crea un’illusione ottica dove le luci e le ombre convivono in sensazioni di turbolenza. Ci si sente testimoni di un fatto che sta per succedere, si sente che la natura è stata liberata. Quando nel logos si pensa all’oro, questo è il tesoro dei pirati, bauli stracolmi di gemme scintillanti legate in oro, dobloni e monete”. Per l’Imelde invece l’oro è il protagonista. Non è la lavorazione che lo rende prezioso, non è la pietra che lo fa scintillare. E’ solo oro che è felice di essere stato liberato. Guizza via su di un ricciolo, si inarca su una spirale, si specchia su di sé, moltiplicandosi all’infinito. Sono linee morbide, sono linee in movimento, sono linee che sembra stiano trasformando lo spazio. L’Imelde continua a non produrre pezzi in serie, continua a non fare pubblicità, continua a considerare i suoi clienti amici fedelissimi. ” Non riesco mai a distaccarmi da un mio pezzo, ogni volta è come se un po’ di me se ne andasse da un’altra parte, si crea una forte corrispondenza di sensi e lo struggimento è grande”. Non ha voluto neanche che si diffondesse il suo indirizzo.
Roberto Cresti
ARCO MEDITERRANEO
Catalogo a cura di Roberto Cresti, 1999
“La perla rotola nel mare” – G. Benn – 1. Luce e ombra costituiscono la trama equinoziale che collega, nella mobile immagine del tempo, le forme, presenti e passate, della cultura mediterranea. E, a chi eccepisca che tale reciprocità si riscontra sull’intera superficie terrestre, si può replicare che se ciò è vero, lo è altrettanto che nel perimetro del “mare nostro” la misura della luce s’incontra a quella dell’ombra in modo così totale da non poter dirsi soltanto un effetto di natura, bensì un principio di creatività assoluta. La luce che si estende fra Gibilterra e i Dardanelli, non è infatti né luce né ombra, ma è un filo chiaroscuro che “tesse” le due, allo stesso modo che l’onda dà forme alla riva ed è dalla riva formata. Quale altro orizzonte storico può offrire la stessa varietà di culture e, al loro interno, altrettanta varietà d’espressioni? Dove, avvicinando i più celebrati monumenti, si avverte che essi non sono tutti in se stessi, ma anzi conservano un’instabilità che li proietta intimamente “altrove”, cosicché uno stile non è che il prevalere d’una certa misura qui e ora? E più se ne ricerca il modello originario, l’archetipo, più ci si imbatte in un altro momentaneo modello, ovvero ci si imbatte in un’altra precarietà assoluta, in quell’Atene, sempre sorta e crollata prima di Atene, di cui parla Platone nel Crizia. Irraggiungibile acropoli di un’Atlantide diffusa nello spazio e nel tempo – catanabasi che fa la pietra simile al vento. Mi pare giusto riferire quest’ampio complesso di valori poiché i gioielli, i monili e in ultimo le sculture di Imelde Corelli Grappadelli nascono da un’intima affinità col “tessuto” mediterraneo, proprio oggi che al suo chiaroscuro d’origine (in cui H. Keyserling vedeva la negazione affermativa d’ogni civiltà) si aggiunge l’incalzare d’ogni sorta d’oblio o inquinamento. Le forme che ella produce hanno infatti una doppia fronte: sono da un lato l’esito d’una memoria antica, che si rifà per loro tramite presente, dall’altro marcano le cifre d’una differenza, che però ne coglie l’essere ancora in atto. Pare così di avvicinarsi ad esse per allontanamento, come se uno spirito cessato le ricreasse… nell’ironia di un proprio futuro non previsto. 2. Ora, l’itinerario artistico della Corelli Grappadelli è passato per varie crune, che sono simili agli anelli per i quali sfilò, fino al bersaglio, la freccia più precisa della letteratura occidentale: quella di Odisseo. E, in un certo senso, si può dire che la prova dell’arco, che doveva rivelare la riconquistata “potenza” dell’eroe-sovrano, e segnare la fine del tentativo d’usurpazione del suo trono da parte dei proci, ella l’abbia sostenuta davvero, almeno nella sua essenza. L’episodio, come si ricorderà, è stato quasi sempre interpretato in senso realistico, quale prova di abilità congiunta a forza. Una prova, cioè, totalmente fisica. Eppure in essa si rilevano del pari elementi simbolici non trascurabili. Intanto gli anelli in questione appartengono a dodici asce, il cui numero corrispondeva – allora come oggi – a quello dei mesi dell’anno. E poi l’ascia bipenne – pélekus – aveva già in se stessa un significato cosmologico, designando il suo doppio taglio il corso del sole e della luna. A ciò s’aggiunga lo strumento impiegato da Odisseo per scagliare la freccia, ovvero l’arco, l’arma di Apollo, la cui analogia con la volta celeste è fin troppo evidente. Si rammenti, inoltre, che la prova preliminare alla prova stessa era di sapere “accordare”, cioè di tendere, l’arco, legandone con un “filo” le due estremità. Senza esagerare, si potrebbe così ravvisare nel doppio filo, che tende l’arco nella forma (apollinea) della volta celeste – segnando ad un tempo la linea, duplice anch’essa, del diametro terrestre -, e che viene poi tracciato dalla freccia attraverso gli anelli delle dodici asce (dei mesi), un simbolo d’incontro intermedio fra la terra e il cielo, nei termini d’una “=”. Un simbolo di tipo solare-regale, il cui aspetto manifesto viene rappresentato dalla riapparizione, in veste di sovrano, del “luminoso” – **ó* – Odisseo. Questi infatti ripristina un ordine cardinale che succede, dopo un periodo d’oscurità, al caos prodotto dalle varie sregolatezze dei proci. I quali vengono per la maggior parte uccisi, in ordine di responsabilità del male prodotto, dallo stesso tipo di frecce di quella che aveva per prima colto il bersaglio. Si potrebbero certo considerare tutte queste delle coincidenze (e forse, in parte, lo sono davvero); eppure importante vedere anche nelle molte opacità del racconto epico una componente determinante del suo simbolismo (come lo sono le formule in esso così frequentemente ripetute). Vi è però un aspetto che non può essere casuale, ossia che Odisseo, con la sua vendetta, sembra unificare nella propria arma i punti cardinali, operando una sintesi estrema del “filo”, ossia del corso del suo viaggio. Tale era infatti la vocazione profonda dell’eroe. Ma ad essa si congiunge, a completarla, l’epos di un’altra mano, di un altro “pro-filo” non meno noto. Quello di Penelope tessitrice in due versi – nel fare e nel disfare i nodi della tela (che non a caso è un sudario regale) -, con un “gesto” analogo a quello delle onde. Tutte le grandi tessitrici sono in realtà figure che sovrintendono ad una trasformazione di elementi, e il loro filo rappresenta l’ambigua continuità di tutte le metamorfosi, che si sviluppano dalla luce all’ombra o viceversa. Esse sono per questo assimilate a uccelli (fausti o nefasti) ed in particolare a quelli che stanno sul limite fra gli elementi che compongono il mondo: terra, aria, acqua e fuoco. Si ricordino a riguardo la “combustione” della Fenice, le ali della Nike, e il fatto che in greco penelops significhi “anatra”, ovvero una creatura abitatrice del mondo delle acque eppure capace di levarsi in volo. Proprio gli ucceli di palude, infatti, godevano di un rispetto particolare in quanto “anfibi” – dalle due nature -, e una proiezione ideale del loro volo si ravvisa in quel particolare tipo di “tessitura” che trasformava il papiro, con intrecci a “+ “, in un’onda concentrica, ossia nel rotolo. Questo a sua volta ospitava poi il filo della scrittura, che spesso congiungeva in un unico volo le formule sacre e segrete della cosmogonia: dall’inizio alla fine del mondo. Dal filo si vede così comporsi un tessuto che porta in sé il cosmo intero e che, ove si stabilizza in una serie di nodi – di arcipelaghi o di costellazioni -, è già internamente mosso da un nuovo movimento. È pertanto il filo stesso ad essere il primo e l’ultimo capo del tessuto, come il serpente, soltanto in apparenza doppio, stretto in entrambe le mani dalle fittili statuette delle grandi dee mediterranee. E la medesima funzione rivestono anche le collane, i bracciali, le cinture, e tutto quello che, nel loro mondo, “stringe il filo in un nodo”, essendo un “nodo” già destinato a sciogliersi. La prova superata da Odisseo implica dunque l’affilamento a un ordine che si realizza attraverso un insieme di passaggi e di paesaggi, di avanzamenti e di arretramenti, di tempeste e di bonacce, del tutto simili al movimento del pettine sul telaio. Un insieme che, alla fine, scopre il filo conduttore celato in tutte le cose come un cosmo comune a due nature – il sole e la luna, ovvero i principi virile e femminile, presenti in ciascuna delle asce – che s’uniscono in una ierogamia uranica e ctonia, in cui non prevale né la luce né l’ombra ma il “tessuto” in-finito d’entrambe. La freccia, cogliendo il bersaglio, mette così termine al viaggio, ed insieme formalizza la tessitura della tela, non perché essa determini un evento specifico, ma perché riconosce un principio d’unità elementare fra due trame diverse che si ricollegano eliminando il superfluo. L’una senza l’altra infatti non avrebbe senso, mentre la loro unione ripristina ciò che già “era” e consente che, nuovamente, “sia”. Il punto decisivo infatti è che tutto quanto collega Odisseo e Penelope si rivela, in ultima analisi, transitorio nei due versi – nei due sensi – del tempo: da un lato dando forma al passato, poiché la tela sempre fatta e disfatta, era giusto il sudario destinato ad un re, Laerte, il padre di Odisseo; dall’altro dando forma al futuro, poiché assicura lo stesso ruolo a Telemaco. La discendenza regale passa dunque come un filo attraverso le “crune” allineate di Laerte, Odisseo-Penelope e del loro figlio. – E il fatto che la prova consista nell’attraversare in linea dodici anelli rivela il carattere ciclico “annuale” della regalità solare in ordinato rapporto con la terra. Che la tessitrice di Itaca non facesse parte della cosiddetta “congiura delle regine” è poi, in questo senso, assai significativo; e lo è del pari che ella avesse rifiutato la collana offertale da uno dei proci, Eurimaco, essendo la collana il simbolo del piacere afroditico, ossia di un’unione sessuale foriera di lutti, perché connessa solo al piacere carnale. Un monile analogo infatti, “di aureo splendore”, con “scintillanti pietre preziose”, era appartenuto ad Armonia, ed era stato portato, come vuole la leggenda, a Delfi ove era stato neutralizzato, ma sarebbe più giusto dire equilibrato, dal potere spirituale di Apollo. Penelope si stacca così non poco dall’irresistibile fascino delle più antiche dee o madri mediterranee, ma l’atto le conferisce tuttavia una forza etica più complessa, cui fa riscontro quella di Odisseo, negatosi alla immortalità, e ritornato in patria per sancire la misura ciclica del suo tempo: lo sciogliersi del suo nodo nel filo teso dalla sua stessa freccia. 3. Questa corrispondenza ci riporta allora al più profondo carattere della luce e dell’ombra mediterranne: al filo che le connette. E laddove si è detto che Imelde Corelli Grappadelli ha essa stessa sostenuto la prova di Odisseo e, aggiungeremo ora, anche di Penelope, si voleva intendere che il suo lavoro, tutto sviluppato sulla idea del filo, ha un eguale carattere complessivo o ciclico: eredita cioè il “sudario di Laerte” nei termini d’una ineccepibile conoscenza “filo-logica” del passato (in termini di acquisizione delle tecniche di lavorazione dell’oro e di altri metalli), ma non si accosta all’Antico con spirito, come direbbe Nietzsche, “antiquario”. Anzi fa di esso quasi un luogo intermedio, di transito, da cui è possibile vedere ancora più indietro nel tempo, cogliendo forse, da prima, il carattere eccessivo ma anche accessivo, in termini di futuro, dei gioielli d’Armonia. A lungo infatti ella ha svolto la propria opera come orafa, producendo collane, bracciali, fibule e altri monili, che celebrano al più altro grado la luminosità della loro mataria. Ma, con lentezza meditata, ha anche sentito il bisogno d’una materia espressiva più vasta, certo meno squillante o seducente ma più profonda, più aderente alle forme che la mano trova nelle proprie vicinanze, e che modifica. Al cesello che, come la punta estrema di un riflesso astrale, incide la luce già data nella terra e la dirama in vuoti, segni e trame d’un cifrario che, con immancabile erotismo, il corpo umano completa e quasi risospinge in alto, a quella punta è subentrato il tatto fabbrile delle dita. L’esperienza precedente non si è però perduta, si è modificata in senso produttivo. Se prima era l’essere del metallo o della perla a imporsi, richiedendo un’opera di sottrazione a sé, onde aumentare per dis-continuità o per ripetizione il proprio volume interno, ora dello stesso assoluto resta il confine, pur sempre inevitabile, con l’ombra. Ed è interessante notare come l’artista sia passata oltre tale confine per gradi, opponendo alla assolutezza del “prezioso” non l’ombra ma una superficie opaca, nella quale la luce “vive” dentro al volume variabile del mondo. Questo è stato il significato del ricorso a certe forme, non a caso eseguite in terracotta, all’apparenza di mero supporto ai gioielli. Si è trattato, all’inizio, di teste, o meglio di frammenti d’una fossile Antichità a stento resuscitata, come se l’orecchino, la fibula o la collana trovassero nei fittili frammenti, più che altro, una occasione di rafforzamento del proprio splendore. Ma in verità il processo di congiunzione è stato anche opposto, poiché luce e materia (la terra) si sono pian piano equilibrate, raffreddandosi o cuocendosi a vicenda, e designando un centro (“+”) intermedio: il “filo” di un arco teso fra principi opposti. Forse l’artista non ha avuto l’arco di Odisseo, ma ha potuto ugualmente usare uno strumento cosmico, e annodare con esso gli estremi geografici e manuali del proprio lavoro. Come nel mito il suo lungo viaggio di ricerca (sui libri) – la “tela” sempre tessuta e sempre sfatta, che porta il presente nel passato, e viceversa – ha trovato così un limite formale, da prima mimetico, in certi modelli di sculture arcaiche. Le teste, frammentarie e residuali dell’Antico, hanno infatti ceduto il passo ad altre teste realizzate con la tecnica della “colombina”, ove la terra affilata dalle mani sembra crescere su se stessa, di anello in anello, generando forme quasi musicali. La scultura si è rivelata così un ritmo: nel propagarsi d’una sola sostanza che si modella pur restando in se stessa: essenziale e complessa: vuota e piena a un tempo. Il suo movimento non deriva da altro, ovvero da un modello. Viene invece da dentro, e può generare infinite forme, e persino ripercorrere la propria – “ora” – ordinata discendenza, come la Corelli Grappadelli fa quando, di nuovo, torna alla pratica dell’oro, ma si produce anche nel concentrico mulinello, nel volo, del suo “filo” fattosi anfibio, che genera una serie di personaggi animati – di nodi già in punto di sciogliersi l’uno nell’altro -, tali che anche fusi in bronzo, pur nella stabilità di una forma, non tradiscono l’intima precarietà mediterranea della loro origine.. Guardando questi personaggi, a volte ilari, a volte connessi alle stagioni, oppure generati da memorie storiche come, in questo caso, quelle della famiglia Bentivoglio, non si può fare a meno di avvertire influenze remote, moti primitivi di forme: statuette votive, ciste e persino… nuraghe. Tutti tacche o gradi d’un grande ciclo, che, in modi tanto diversi eppure tanto affini, si manifesta attraverso i secoli. Sorgono dalla sua trama, e vi spariscono, eroi, come il luminoso Odisseo, che sono certo del “loro tempo” ma, proprio per questo limite, di “ogni tempo”. E chiunque abbia viaggiato fra Gibilterra e i Dardanelli sa che Benn ha tutte le ragioni di scrivere – in una nota poesia dedicata allo splendore via via oscuratosi del palazzo di Diocleziano a Spalato – che, alla fine, “la perla rotola nel mare”. Pensando a quella stessa “perla” si comprende allora che anche il lavoro della Corelli Grappadelli porta “alla luce” il medesimo evento, il medesimo tuffo che produce una serie di archi concentrici sull’acqua, di nostalgie forse pagane, e, dal fondo sempre più derelitto del nostro mare antico, qualche bolla che, lenta, risale in superficie.
Bartolomeo De Gioia
IMELDE CORELLI GRAPPADELLI
Bartolomeo De Gioia, 1993
Archeopatafisica è il titolo del prezioso ed elegantissimo catalogo che ha accompagnato la rassegna della giovane artista bolognese che oltre ad essere una valentissima artista scultrice-orafa è anche archeologa e storica dell’arte. Laureatasi a Bologna con una tesi sperimentale” Elementi della tecnologia dell’oro nell’antichità” la Corelli si dedica in particolare alla ricerca della granulazione, usata in specie dagli etruschi, e si impadronisce dei segreti dell’arte orafa frequentando il laboratorio orafo Renazzi-Ferri. Ad una prima mostra al museo Civico Archeologico di Bologna nel 1987 /88, hanno fatto seguito una serie di esibizioni a partecipazione in mostre del gruppo del Circolo Artistico di Bologna (1989/90/91) e alla galleria Fattoadarte nel 1991/92. Abbiamo stralciato dal catalogo un passo della presentazione a firma di Simonetta Bondoni Busi per offrirvelo in lettura.
Lucia De Maria
ABRAXAS
A cura di Lucia de Maria 1991
…….Oggi che magia ed essoterismo sembrano rinascere, alcune di queste pietre sono state montate in un’insolita e luminosa cornice da Imelde Corelli Grappadelli, orafa e archeologa. Recuperate dalle viscere della terra coniugano la loro inalterata materia con quella, duttile e dinamica dell’oro. Testimoniano di un passato pietrificato che, racchiuso ed intrappolato inspirali altrettanto preziose, si ripresenta intatto. Piccole pietre delle quali l’oro esalta la forma ed il colore proiettando il loro significato nel futuro. Un binomio magico, insomma, dove l’arte antica sopravvive a quella moderna.
Francesca Divella
SCOPERTE – IL GIOIELLO? È UN RITRATTO
Francesca Divella, 2005
Nascosta in una piccola viuzza del centro abbiamo scovato la bottega o meglio l’atelier di una vera grande artista: Imelde Corelli Grappadelli pittrice-orafa e scultrice; discendente dalla Famiglia del celeberrimo compositore barocco Arcangelo Corelli, a cui è stato riservato il privilegio della sepoltura al Pantheon di Roma.
Imelde non crea solo gioielli, crea pezzi unici, proiezioni in oro del tuo corpo, della tua anima. Ritratti in forma di gioiello. È per questo che ama definirsi pittrice-orafa, perché i suoi lavori sono proiezioni naturali nei colori dell’oro e dell’argento. La nuova collezione con il marchio Imelde Corelliâ è rivolta ad un pubblico di affermate anticonformiste, alla ricerca di un alto valore estetico ed etico nei gioielli indossati. Un gioiello per accarezzare il nostro io, esaltare la propria grazia. E perché no, come soluzione ornamentale e terapeutica di aiuto psicologico ai disagi del vivere. Gioielli sentimentali, capaci di esprimere ciò che siamo e di farlo prima ancora di averci incontrato: Imelde li crea, loro ci trovano. Oppure dopo averci conosciuto, studiato Imelde creerà per noi il nostro gioiello, una melodia di metalli e pietre preziose per esprimere la nostra essenza: il quarzo per l’energia, la giada per guarire ogni male e donare regalità, coralli contro gli incantesimi e ancora tormaline lapislazzuli turchesi. Anche gli uomini potranno trovare da Imelde un nuovo mezzo per dire chi sono: gemelli, chevalier, catene da collo per uomini sempre più paggi, portati all’esposizione di sé e del loro meglio. Un’intera linea di gioielli dedicati a lui. E se volete essere originali e preziosi soprattutto il giorno del vostro matrimonio, imitate le nobili coppie di bolognesi: i cucchiaini d’argento per aceto balsamico sono ormai bomboniere all’ultimo grido nell’upper class cittadina. Tutti uno diverso dall’altro, frutti di una lavorazione certosina, rievocano antiche tecniche alchemiche e tradizioni familiari. Imelde non produce in serie, considera i suoi clienti amici fedelissimi. Se siete incuriositi, visitate il suo sito www.imelde.it o scrivetele, la sua mail è info@imelde.it Un ultima nota per i curiosi: un negozio di Bologna dove potrete ammirare esposte in vetrina le creazioni di Imelde è Paris & Nada accessori per la donna in via San Vitale 32/A.
Silvia Evangelisti
FATTOADARTE
Silvia Evangelisti, Il giornale dell’arte, Novembre 1992
Apre il 16 novembre una mostra dal titolo “Archeopatafisica” nella quale sono presentati gioielli e sculture di Corelli Grappadelli orafa e studiosa di archeologia.
Giancarlo Fabiani
QUEL GIOIELLO DI FESTA
A cura di Giancarlo Fabiani 1995
………. L’evento straordinario della festa di quest’anno è rappresentato dalla mostra di gioielli dell’artista Imelde Corelli Grappadelli allestita presso la sala consigliare del comune. Ho scritto evento straordinario proprio perché sono certo che non capiti tutti i giorni, a chi vive in paese, di potere ammirare capolavori d’arte orafa. Se per definire la bellezza dei gioielli esposti tranquillamente tutti gli aggettivi del nostro ricchissimo dizionario, con altrettanta tranquillità mi sento di affermare che il gioiello più prezioso è proprio lei, l’artista. Ho avuto la fortuna di visitare la mostra accompagnato dalla signora che con forza, passione, e sconvolgente chiarezza, mi ha illustrato attimo per attimo il passaggio dall’ispirazione alla realizzazione di ogni opera. Per un istante ho nutrito il tormentato dubbio di non essere a Petritoli!!!!
Diego Giovinazzo
UNA TARGA SUL K2
Diego Giovinazzo,
Don Arturo Bergamaschi, il prete scalatore, con una nuova impresa , si prefigge di raggiungere la vetta del K2 a 8611 metri, nel 40° anniversario della prima ascensione portata a termine dagli italiani Lacedelli e Compagnoni. Don Arturo e la sua squadra , scaleranno il K2 dallo spigolo Nord sul versante cinese. Nella loro marcia di avvicinamento raggiungeranno la città di Kasghar, a quota 4000 m, e qui riporranno il campo base. All’ormai universalmente noto scalatore e ai suoi accompagnatori la cna di Bologna ha affidato un messaggio ed un’opera da consegnare alla città di Kasghar……..L’opera di Imelde Corelli Grappadelli riproduce la piazza e le chiese di Santo Stefano e vuole essere un gesto di amicizia verso un popolo lontano ma conosciuto per la laboriosità e l’ ospitalità……..
Christian Langlois
Christian Langlois
Corelli Grappadelli Imelde, sculpteur et orfévre, realise des pièces en bronze caractérisées par une forte influence du courant pataphysique. Les sculptures – realisées par fusion “à cire perdue” – sont pièces uniques, qui ont atteint sur le marché des valeurs trés intéressantes pour les collectioneurs et les galleries. Les œuvres représentent des personnages de l’histoire, librement interprétées par la créativité de l’artiste.
Corelli Grappadelli Imelde, sculptor and goldsmith, makes pieces in bronze. She is influenced by the pataphysique movement. Her sculptures, are single wax lose pieces, they riched on the market very god value, interesting for collectors and galleries. The works show free interpretation of historical figures, due to artist’s creativity.
Paolo Levi
Paolo Levi
Imelde Corelli Grappadelli fa buon uso del “colombino argilla”, come tecnica e sperimentazione plastica, da cui sono nate figure arcaiche come le quattro stagioni. Nel contempo questa signora è artista artigiana internazionale, colta e raffinata orafa. Storica dell’arte e archeologa, sa portare in luce le proprie sperimentazioni alchemiche, riflessi di una cultura antica minoica, egizia ed etrusca. Nei suoi gioielli Imelde Corelli è pittrice attenta che sa porgere l’oro come primo attore in un gioco di forme in cui si materializzano, magiche, astratte, visioni.
Gian Ruggero Manzoni
LE MANI DI SHIVA – LA MOSTRAZIONE
Cataloghi a cura di Gian Ruggero Manzoni, 1994 e 1995
LE MANI DI SHIVA – Gian Ruggero Manzoni 1994 – Inizio e fine. Suono e silenzio. Luce e buio Ecco cosa il dio custodisce fra le dita: il destino del cosmo. Esso rappresenta l’Eterna Energia. Mima, danzando, l’atto della nascita. E’ circondato da un’aureola (o collana) di fiamme che scaturisce dalla pianta di loto, simbolo della Conoscenza. Ha quattro mani: nella superiore sinistra tiene il tamburello, che sparge la musica della Creazione; nella superiore destra una lingua di fuoco, presagio della futura morte dell’Universo. In effetti i miti indiani parlano di Spazi e Tempi che attraversano periodi ciclici di cessazione e di rinnovamento, lunghi miliardi di anni; una concezione che ricorda da vicino alcune vedute della cosmologia contemporanea. Non a caso i gesti delle altre due mani di Shiva simboleggiano l’eterno equilibrio fra vita e morte, mentre la figura prostrata su cui balla sensualmente la divinità è l’ignoranza. Di tale culto esistono i Testimoni……. I Custodi; piccole statue di creta che osservano l’apparire e lo scomparire delle epoche e delle costellazioni (veri e propri gioielli di astri) all’orizzonte, e l’alternarsi dei colori che ne contraddistinguono le virtù: il blu del lapislazzuli, quale contenitore della totalità – il rosa del corallo, matrice di castità – il bianco della perla, anima della perfezione – il verde smeraldo, come specchio della continuità – il rosso rubino, o estremo incanto – il giallo dell’oro, quale risultanza del processo alchemico – il nero della perla, a ricordo del proficuo attraversamento della perla. Tutte le collane (figure del nostro cielo) sono amuleti dalle magiche proprietà. Oltre ad essere un semplice ornamento, il monile può indicare anche una funzione, una dignità, una ricompensa militare o civile, oppure una condizione di dipendenza o appartenenza: servitore, prigioniero, amante, schiavo. In senso generale la collana rappresenta il legame fra colui o colei che l’indossa e chi gliel’ha forgiata e quindi offerta; a questo titolo essa riveste, talvolta, anche un significato erotico, o la personale sensibilità dell’individuo che la porta. In senso cosmico e psichico esprime la riduzione dal multiplo all’uno, una tendenza a mettere a posto ed in ordine una diversità più o meno caotica; in senso inverso, disfare una collana equivale una disintegrazione dell’aspetto stabile o degli elementi riuniti. Le opere di Imelde Corelli Grappadelli contengono tutte queste proprietà, figlie dello studio e del sapere. Un’arte, la sua, antica, per filosofia, ma, nel contempo, odierna, per i valori che in sé racchiude. Una fusione di estasi contemplativa e preziosismo gestuale, sublimati dalla concentrazione rivolta ad un essenza superiore e trascendentale. Ad un’Origine suprema. Ad un Metodo.
LA MOSTRAZIONE – Gian Ruggero Manzoni 1995 – Una Tematica a me cara quella della regina Amalasuntae perché significativa di un momento epocale in cui il gioco e l’accusa, tanto cari anche ad un grande artista ed amico come Enrico Bay, divengono punti di riferimento per un modo d’intendere il processo fora e l’impatto con l’esistenziale. I pezzi in terracotta lavorata con la tecnica del “colombino” eseguiti da Imelde Corelli Grappadelli si impongono spaesanti nella Sala del Silenzio. Noi, di origine ravennate, celti e bizantini, conteniamo già insito ancestralmente l’umore dell’interspazio, della sospensione e in tale dimensione il tutto può avvenire: i mosaici trovano un loro senso compiuto, i piccoli busti commemorativi riconquistano il piacere di parlare fra di loro e con noi, i gioielli ricamano le costellazione e lanciano messaggi oltre l’ignoto e oltre la staticità. Il concetto di specchio, di rifrazione, rappresentato dai grandi occhi patafisici si spalanca all’infinito vortice della mutazione. L’essere e l’apparire ansimano , sorridono, “ciaccolano”, si scambiano di ruolo, assumendo ora il colore della cera rossa o della polvere di lapislazzuli. HUmour delicato e provocatorio quale anticorpo contro l’indifferenza dilagante, il distacco dalla grazia, la disgregazione di un mondo ormai votato alla barbarie. Primitività primigenia il cui interno del manufatto racchiude il puro nulla della domanda. Frammenti perciò, riguardanti l’attuale crisi dei valori, tragici e grotteschi, per i quali lo spazio scenico interagisce con la semplicità della proposta. La “mostrazione” dl gesto creativo è di illimitata significanza, di classica……… di latina……..filologia. La donna esegue, si mostra, interpreta e diviene prima e vera protagonista di ciò che sarà il cambiamento.
Lara Mariani
UN GIOIELLO CHE PARLA DI TE – Imelde Corelli racconta attraverso oro, argento e pietre preziose
Lara Mariani
Spesso i sogni d’infanzia si lasciano dimenticare, a volte le passioni semplicemente non possono essere realizzate, a volte ma non sempre! Imelde, ancora bambina, adorava sentir parlare la nonna della sua magnifica collezione di gioielli, ascoltava, imparava e in quei momenti aveva già deciso che avrebbe fatto gioielli per tutta la vita. Dopo essersi laureata in storia antica con una tesi sulla tecnologia dell’oro nell’antichità ed aver imparato l’arte orafa si è dedicata completamente alla sua passione per i gioielli e oggi dal suo laboratorio si via Torleone escono magnifiche creazioni, frutto di un lavoro eseguito con ordine, concentrazione e disciplina, ma anche del suo estro creativo, della sua continua curiosità nei confronti della realtà e della modernità. I suoi gioielli prima che ornamenti sono prolungamenti della personalità di chi li indossa, vengono creati appositamente per il cliente, dopo un incontro in cui Imelde ne studia la gestualità, il carattere, e le proporzioni dei lineamenti e delle mani.
L’incontro è indispensabile perchè le opere devono divenire pezzi unici, esclusivamente personali. Proprio con questa prospettiva è nato il marchio: “l’imelde®”, opere di alta gioielleria realizzate con i materiali più preziosi dai diamanti purissimi alle perle, coralli, zaffiri e turchesi. Invece il marchio “IMELDE CORELLI®” è una novità, l’ultima sfida dell’orafa che ora si rivolge ad un pubblico dinamico, giovane, cosmopolita. Quindi i gioielli sono in argento, pelli pregiate, quarzi e tormaline, per realizzare un look personale, effervescente, esuberante e vincente. Il nuovo marchio presta grande attenzione al mondo maschile e propone una serie di oggetti ricercati ed eleganti, in sintonia con il gusto raffinato dell’uomo moderno. A lui sono dedicati preziosi e ricercatissimi gemelli, ferma-cravatte, catene e anelli.
Brunella Paciello
IL GIOIELLO COME ARTE SUPREMA
Brunella Paciello, 1994
Un’artista insolita, tutta da scoprire. Per gioielli all’insegna della ricerca e dell’introspezione,nei quali il confine tra conscio ed inconscio si trasforma in un’impercettibile linea d’ombra. Gioielli come espressione artistica, ma anche come viaggio nel profondo, tensione introspettiva, analisi personalizzata delle proprie paure e dei più radicati desideri. Sculture che paiono volti, espressioni umane intrinseche creature di un inconscio improvvisamente materializzato, mai del tutto seppellito nelle profondità della psiche, del nostro essere più nascosto e dimenticato. L’arte di Imelde Corelli Grappadelli ha radici antiche. Giovane, ancora bambina , era già affascinata dai gioielli della nonna , che l’anziana genitrice le concedeva qualche volta di ammirare e di tenere tra le mani. Con gli anni Imelde decide. Diventerà orafa, creerà lei stessa bracciali, collane e altri meravigliosi preziosi. E tiene fede alla sua promessa. All’università si laurea con una tesi insolita. “Elementi della tecnologia dell’oro nell’antichità” presentando il materiale studiato nei musei di Taranto e di Ferrara. Dopo la laurea la bambina cresciuta con la passione dei gioielli diventa insegnante di storia dell’arte per tre anni. Alla fine di questa esperienza si stacca da un tipo di vita inquadrato per immergersi completamente nella sua antica , ma mai sopita passione. L’ arte orafa. Diventa a questo punto, l’unica allieva del laboratorio orafo bolognese Renazzi-Ferri apprendendo dagli anziani maestri i segreti della creazione orafa e delle sue infinite forme, verificando in pratica le teorie apprese studiando nei musei. E finalmente crea gioielli . Insoliti, interessanti, tutti da scoprire, come particolare è il suo modo di arrivare all’ideazione, alla creazione artistica. Come si sviluppa il suo processo creativo? In maniera del tutto particolare. Innanzi tutto parlo con chi viene da me a chiedere il gioiello. Analizzo la persona, la esamino, cerco di entrare nelle profondità della sua personalità. E faccio lo stesso se mi si chiede un gioiello per una terza persona .Mi rendo conto che il mio processo creativo è del tutto insolito. Per me un gioiello deve rispecchiare interessi e desideri della persona che lo indossa, una sua visione del mondo e un suo modo di essere. Deve compenetrarsi con essa e divenire una sua parte integrante. Ci sembra di capire che il suo è un procedimento piuttosto lungo, assai sfibrante…. Certamente, ogni volta mi sento come svuotata. E’ anche per questa ragione che ogni creazione richiede tempo, concentrazione. Mi interessa, inutile sottolinearlo, più la qualità che la quantità. La sua è una ricerca particolare anche per quello che concerne i materiali scelti? Cerco di scegliere i materiali a seconda della personalità della persona che mi richiede un certo tipo di gioiello. Per esempio adoro l’oro verde, ma devo dire che in generale mi piace ‘oro in tutti i suoi colori. E poi prediligo il diamante, ll corallo e lo smeraldo. Le tonalità sono importanti. Debbono fondersi con chi indossa il gioiello, devono parlare della persona, dei suoi desideri, delle sue aspirazioni. E per quello che riguarda la lavorazione del gioiello? E’ molto importante la tecnica manuale.La materia si fonde tre le dita, viene creata e plasmata con l’idea. E’ basilare, poi, scegliere un materiale congeniale, che senti vicino a ciò che ispira. E, dalla fusione in poi il processo diventa immediato, come se le proprie mani lavorassero da sole, senza ricevere impulsi e comandi dal cervello. Il confine tra arte e arte orafa è labile, per questo le chiediamo se crea solo gioielli… Infatti no. Considero l’oro e ciò che è prezioso una fonte inesauribile di ispirazione,ma voglio controbilanciare il poterei questi materiali con l’uso di ciò che è povero, usuale, legato alla terra.E’ per questa ragione che creo sculture in creta. Esse costituiscono una sorte di contraltare ideale alle mie ideazioni orafe, un modo per esprimere anche l’altra parte di me. Queste sculture insieme ai suoi gioielli sono stati protagonisti di una recentissima mostra, non è vero? Si è stato a Bologna , alla fine del mese di marzo, nelle sale del Cabaret Voltaire, luogo di ” incontro e scontro” elle esperienze bolognesi. E’ stata una esposizione durata cinque ore nella quale ho mostrato appunto ,cinque colane, presentate da altrettanti “Testimoni”. I Testimoni erano, in questo caso, le mie sculture che stabilivano una simbiosi fra materiali ricchi e poveri, uniti però dalla stessa ricerca creativa, dallo stesso amore per l’esplorazione dell’inconscio individuale e collettivo.
Maria Grazia Palmieri
QUANDO LA STORIA DIVENTA ARTE
Maria Grazia Palmieri, 1991
Gioielli che sono tangibile rappresentazione di artistica emotività, di sensazioni, di “essenza”, e di un approfondito back-ground culturale che ne esaltano le peculiarità, con la propria particolarità, sigilli antichi, magiche pietre, voci del passato, che si uniscono al resente in montature d’oro che sotto le abili mani di Imelde Corelli Grappadelli, un’artista profondamente coinvolta nei suoi lavori, sono quanto verrà presentato nella Galleria bolognese “Fatto ad Arte “. Si tratta di un appuntamento indubbiamente interessante che si sviluppa con “Archeopatafisica”, i gioielli e le sculture che l’artista , studiosa ed archeologa, ha ideato e interamente realizzato con antiche tecniche, e con “Abraxas”, antiche pietre incise dell’impero sasanide, montate in oro. Per quanto riguarda “archeopatafisica” i gioielli e le sculture che l’artista , studiosa ed archeologa, ha ideato ed interamente realizzato con antiche tecniche, e con Abraxas , antiche pietre incise dell’impero sasanide,montate in oro. Per quanto riguarda “archeopataisica”, c’è da sottolineare che ci troviamo di fronte a gioielli molto particolari, ciascuno dei quali rappresenta un momento specifico di ispirazione dell’orafa-artista Imelde Corelli Grappadelli. Sono monili unici, ciascuno con la sua storia intrinseca, forme particolari che catturano pietre di diverso colore in un tutt’un ricco di significo, indossati da sculture in creta di originale fattura. Per quanto riguarda “Abraxas”, Fattoadarte, presenta l’omonima serie, costituita da antichissime pietre multicolori, che narrano la cultura orientale della dominazione sasanide,(III-VII secolo d.c.)grazie alle particolari immagini graffite su di esse, miscellanea di credenza, magia, misticità e riti. Tali sigilli e pietre antiche offrono i loro intrinseci valori storici, alla duttilità dell’oro, lavorato in forme artistiche. Ecco allora il bracciale costituito da una treccia a tre fili in oro, in cui troviamo due antichi sigilli, di calcedonio-corniola rossoarancio, uno montato a ciondolo,l’altro posto sulla chiusura a perno mobile, recanti l’interessante incisione di n profilo maschile. Oppure ecco l’originale pendente in oro con sigillo sasanide in calcedonio sul quale l’incisione mostra un bue gibbuto, o la spilla ove il sigillo rappresentante Abraxas, la divinità raffigurata con la testa di gallo, un busto umano, e le gambe di serpente, viene bloccato in un disegno lineare d’oro arrichito di particolari che richiamano la profonda cultura e la sensibilità di Imelde.
Marilena Pasquali
SCINTILLE FREDDE E FUOCHI INVIOLATI
A cura di Marilena Pasquali, 1994
Non voglio dedicare neppure una riga ad Imelde studiosa e storica dell’oreficeria antica. Non c’è spazio per farlo e dunque rimando l’allettante discorso -che per me vale come impegno- ad un tempo prossimo. Ora è l’artista che mi invita e mi fa parlare. Prendo a prestito alcuni frammenti visionari del mitico Des Essentes (il capitolo dedicato all’inconsapevole tartaruga scrigno incastonata di pietre preziose, il quarto di A’rebours, è uno ei più stordenti dell’intero volume), e provo ad entrare nel mondo gelosamente difeso di un’artista che ha scelto le luci inafferrabili dell’oro, il brillar di lontani soli condensati in un granello di minerale, per esprimere il proprio, non facile, rapporto con se stessa, ed il proprio, invincibile, bisogno degli altri.
Quando Imelde afferma con convinzione che ogni suo gioiello nasce da un dialogo vero con la persona cui è destinato, ribadendo che “ogni cosa” da lei creata “deve essere empatica e simpatetica non amorfa”, giusto questo vuole dire: che è indispensabile alla nascita di un nuovo pezzo, di una nuova opera, l’individuar un motivo per farlo e trovare un congenere nella imprevista, sconosciuta, avventura che ogni volta si apre davanti a lei. A volte Imelde trova nel suo cammino in quel passato che conosce così bene- ed è il caso di Isabella d’Este, tanto amata signora di Ferrara e di Mantova, cui è dedicata una casta e possente collana di quattro file di perle barocche, legate fra loro da un saldissimo filo d’oro che si condensa in una goccia di pioggia d’argento; o di Amalasunta, principessa di Ravenna e- chissà?- antica progenitrice in terra di Romagna di colei che va evocandola, bellezza che rivive nel fasto bizantino di quel fermaglio fiore tutto a riccioli d’oro e nella fiamma raggelata di quella perla nera emersa dai mari del sud. Altre volte gli interlocutori del suo parlar per gesti fisici ed impennate fantastiche appartengono al presente e sono il volto di Giulia, con l’intatta pulizia della sua splendida adolescenza o la severa consapevolezza di se di Cesarina Ferruzzi (interpretato attraverso un sottile filo d’oro trafilato che va a legare un diamante purissimo e d una perla purissima), o la svagata leggerezza della zia Marta che tra le mani di Imelde si trasforma in una farfalla trasparente come il rosa del corallo ed il bianco dell’oro. Ma non basta ancora: su questo mondo così ricco di presenze amiche vegliano i custodi, testimoni nati dalla terra (proprio come i metalli e le pietre rare, e, nella stessa origine, parimenti preziosi) che si arrotolano su stessi a crearsi un corpo caldo ed un volto a specchio, in cui l’artista e le sue creature si riflettono per pensarsi e parlare con se stesse. Il filo di creta che sale a spirale continua ed ininterrotta, ferita cocciutamente ripresa, pare “tirato” dall’artista come il suo caratteristico filo d’oro trafilato. Ciò che è assente, nei muti alter ego di natura archetipica, è la vibrazione, il colore, la luce del metallo prezioso, è il senso tutto pittorico che Imelde sa infondere nei suoi gioielli -opere d’arte, proiezioni fantastiche, dono di sé agli altri, ognuno li veda e soprattutto li senta come vuole-. Se le masse dei testimoni stanno, immobili, per portare e custodire la bellezza, le forme dei gioielli al contrario, si muovono in danza libera, si stendono, si arricciano, arrossiscono, sbiancano, ora bruciano ed ora si fanno di ghiaccio, s’incupiscono e si rinchiudono in sé o fanno le fusa e si aprono per accogliere la carezza morbida della luce.
Vorrei suggerire ad Imelde (ma probabilmente anche questo le è già noto) una nuova compagna di viaggio, quella straordinaria artista della parola e della narrazione che è Marguerite Yourcenar: nella sua “Opera al nero”- ancora, dunque, l’operazione alchemica come metafora della ricerca d’identità e di integrità- la grande scrittrice francese parla di un “universo fatto di fenomeni e di segni”. Ecco, questo, a mio parere, è anche il mondo di Imelde: cose, fatti concreti, elementi prepotentemente fisici ed insieme evocazioni, suggestioni, sensibilità acuta, che le fa avvertire anche ciò che non cade immediatamente sotto i nostri 5 sensi. Basta mi fermo qui. Ad un’altra occasione le riflessioni critiche, le analisi di linguaggio. Per ora sarei già contenta se fossi riuscita ad entrare anch’io nella dimensione di luce e di fuoco dell’artista.
Mark Perez
AMULETI E TALISMANI
A cura di Mark Perez, 1991
………La mostra si snoda in un percorso che parte dal secondo millennio a.c. per giungere fino ad oggi. Molti degli oggetti presentati sono anche preziosi gioielli, nei quali convivono la funzione estetica e quella magica. La frase di Lèvi-Brull, secondo cui “quasi tutti gli ornamenti di cui si compiace la civetteria tanto maschile quanto femminile, sono diventati ornamenti soltanto dopo essere stati ornamenti” esprime in maniera efficace la duplice natura dell’ornamento personale….. in questo spirito è stata realizzata un’apposita sezione della mostra dedicata ad amuleti-gioielli ideati a alcuni protagonisti del giovane design italiano Andrea Anastasio, Mauro Bellei, Imelde Corelli, Massimo Iosa Ghini, Leonardo Pivi, Luigi Serafini, Giorgio Vigna e realizzati per questa occasione come segno tangibile della continuità tra immaginario arcaico e fantasia creatrice.
Marina Pignatelli
IMELDE CORELLI GRAPPADELLI – PEZZI UNICI CON LO STEMMA DI FAMIGLIA
A cura di Marina Pignatelli
IMELDE CORELLI GRAPPADELLI, 1997
La marchesa Imelde Corelli Grappadelli proviene da una antica e nobile famiglia romagnola.Oggi vive a Bologna insieme al marito ed alla figlia. Grande artista e personaggio con profonda sensibilità, Imelde riversa sul lavoro la sua cultura , la conoscenza della storia e l’amore per l’antico, che ha respirato in casa. Fin da giovanissima Imelde dimostra notevoli tendenze artistiche e sogna di diventare orafa ricordando i gioielli della nonna. Ha la fortuna di incontrare il grande maestro ottantaseienne Giuseppe Ferri, amico e confidente di Gabriele D’Annunzio, che la accoglie come unica apprendista al suo laboratorio, facendole vivere una splendida esperienza che le cambia la vita ed il carattere. Per San Valentino del1978 Imelde fa il suo primo gioiello, un anello d’argento per una compagna di scuola, lo mostra al mastro, che sotto ai suoi occhi attoniti lo distrugge con una martellata dicendole: “Non bisogna mai essere soddisfatti delle proprie opere, altrimenti si frena la fantasia”. Imelde studia storia antica del gioiello e gemmologia, musica con il maestro Sarti, pittura con Bassura e si laurea all’università di Bologna con una tesi sulla tecnica della fusione dell’oro con l’osso di seppia. Le si aprono le porte dei musei di Taranto e Spina dov’è chiamata ad intervenire con tecniche arcaiche della lavorazione minoica, egizia ed etrusca, e le vengono offerti posti di responsabilità nell’insegnamento della storia dell’arte antica orafa. Ogni gioiello nasce da un dialogo autentico con il destinatario. Perché un oggetto non sia solo estetico e prezioso, l’artista vuole prima individuare il carattere del cliente per poi iniziare a crearlo con la sua complicità. A un interlocutore perplesso, Imelde chiede data di nascita, ambiente in cui vive, colore preferito, religione, lavoro, hobbies, letture e altro convinta di potersi dedicare poi un oggetto da amare, capace di trasmettergli onde magnetiche positive. I pezzi più significativi li ha tenuti per sé, come la “Paperetta di Verrucchio”, dedicata al principe di Verrucchio, una collana in coralli podange che ha per chiusura una papera d’oro sbalzato e cesellato e “Amalasunta”, una collana di perle barocche con chiusura in orogiallo e rosa, rubini cabochion e una perla nera di tahiti, dedicata alla figlia di Teodorico, il re grande di Ravenna. Per presentare i suoi gioielli nelle varie mostre e per esporli nel laboratorio, Imelde ha creato, plasmando il fango, affascinanti sculture che chiama i “testimoni custodi”, delle piccole statue di creta che osservano il passare delle epoche e vegliano sulle preziose opere d’arte. Oggi Imelde sta preparandosi a portare le sue opere all’università di Chicago che l’ha invitata: è stata pregata però di portare anche i suoi “testimoni”. Imelde ed il marito Massimo hanno una figlia di quattordici anni, Giulia, che per ora fa da modella alla madre durante le sue creazioni e , quando è libera dagli impegni scolastici passa ore a guardare Imelde che lavora, tuffandosi con voluttà in libri d’arte ed enciclopedie di antichi monili e tecniche appartenute agli avi. Più o meno alla sua stessa età anche lei ha preso la grande decisione di diventare orafa.
PEZZI UNICI CON LO STEMMA DI FAMIGLIA, 1996
L’atelier-laboratorio della marchesa Imelde Corelli Grappadelli, a Bologna, è un vero studio d’arte, che rivelala grande dimestichezza della nobildonna con il sapere, la storia, l’antico. All’inizio intimidisce un po’, ma la sua filosofia di vita, la sua semplicità, ed il desiderio di conoscere gli altri nel profondo, le consentono di mettere ben pesto a proprio agio qualunque visitatore. Fin da ragazzina Imelde dimostra tendenze artistiche molto spiccate. Inizia a lavorare vecchie forchette, coltelli e cucchiai d’argento, trovati nella casa di famiglia di Lugo di Romagna facendone degli originalissimi bracciali. Studia con vari maestri d’arte a Bologna dove si laurea in storia antica con una documentatissima tesi sulla tecnologia nella lavorazione del’oro, che le consente subito dopo, di applicare le arcaiche tecniche della granulazione minoica, egizia, ed etrusca, lavorando nei musei di Spina e Taranto, per poi entrare nel prestigioso laboratorio orafo Renazzi e Ferri: questa sarà un’esperienza straordinaria, destinata a cambiare la sua vita ed il suo carattere. Nel ’78 fa un anellino per una compagna di scuola e lo mostra fierissima al maestro Ferri. Questi lo distrugge con una martellata dicendole:” Mai essere soddisfatti di un’opera, perché è proprio così che si frena la fantasia. Imelde, che si definisce pittrice orafa, lavora l’oro affascinata dal colore e dal calore che questa materia sprigiona e crea pezzi unici ispirandosi a personaggi storici, come “Amalasunte” ed “Isabella d’Este” o dedicandoli, dopo un profondo studio psicologico alla persona che li indosserà. Prima di fare un gioiello Imelde analizza a fondo l’interlocutrice chiedendo data di nascita, segno zodiacale, colore ideale, il tipo di scarpe preferito, lo scrittore più amato, il lavoro scelto,la religione, e mille altre domande, apparentemente incongrue ma utili a lei ai fini della sua creazione. Imelde non concepisce un gioiello amorfo, ma lo vuole adatto al carattere ed al temperamento perché solo così potrà trasmettere onde magnetiche positive. La Corelli vive in modo così vibrante e profondo il nascere di una sua opera che quando poi la deve consegnare ormai compiuta, soffre nel separarsene. Gioielli come “Amalasunta” (una collana di perle barocche con chiusura in oro giallo e rosa, rubini cabochon ed una perla nera di tahiti), dedicato alla figlia di Teodorico, il grande re di Ravenna, “Vittorio” (anello in oro giallo e bianco, una perla australiana,un diamante taglio brillante), “La Paperetta di Verrucchio” (collana in corallo podange con chiusura in oro sbalzato e cesellato a forma di papera dedicata al principe di Verrucchio sec VII a.c.) o la collana di coralli rossi con fiori di fragola e chiusa da un gancio materico che vuole rappresentare tradizione e famiglia, sono in giro tra l’Europa e gli Stati Uniti, dove Imelde Corelli ha molti affezionati clienti privati e dove andrà tra poco portando una mostra di gioielli che sta preparando all’università di Chicago, dove è stata invitata. Poiché il sangue non è acqua, sua figlia Giulia, di quattordici anni, che oggi si diverte a farle da modella, ha già deciso di diventare orafa, un giorno. E dedica il tempo libero dalla scuola a guardar la madre lavorare.
Alessandra Quattordio
SIGILLI COME AMULETI
Alessandra Quattordio, 1992
Il potere magico delle pietre si nasconde negli antichi sigilli sassanidi presentati da Imelde Corelli Grappadelli nelle sale della Galleria bolognese Fatto ad Arte. Questa serie di gioielli, battezzata Abraxas, parola densa di significati esoterici e allusioni simboliche , è testimonianza di una cultura antichissima (III-VII secolo d.c.) che abbraccia un territorio molto vasto (da Gerusalemme alle terre afgane ) e pertanto eterogeneo dal punto di vista culturale. Eloquenti le immagini graffite sulle pietre dei sigilli :animali fantastici, fiori, personaggi mitici, divinità orientali ( fra cui Abraxas ) , simboli del culto di Zoroastro. L’influsso benefico che da esse emanava si esercitava su chiunque li indossasse e da qui trae origine la grande diffusione che presso il popolo sassanide godette l’uso di questi preziosi amuleti. Affascinata dal mistero che emanano, Imelde Corelli Grappadelli ama montare le antiche pietre in moderni gioielli esaltandone le proprietà estetiche e simboliche. Appassionata d’archeologia e profonda estimatrice del gioiello di scavo, l’artista fa rivivere i fasti dei mondi scomparsi da cui trae alimento molta parte del nostro patrimonio archeotipico.
Monica Raschi
STORIA SCOLPITA NEL BRONZO – A Bazzano una mostra di Imelde Corelli Grappadelli
A cura di Monica Raschi, 1998
L’antichissima lavorazione del “colombino” usata per forgiare le suggestive figure in bronzo di Giovanni II Bentivoglio e di sua moglie Ginevra, il suo cavallo in lamina d’oro, oltre alle particolari rappresentazioni delle quattro stagioni, dei miti arcaici del mediterraneo sarà spiegata da Imelde Corelli Grappadelli, artista orafa e scultrice, domani alle 16, nella Rocca dei Bentivoglio Di Bazzano dove si sta svolgendo una sua mostra personale dal titolo ” Arco Mediterraneo. Ori e Bronzi dall’età dell’oro”. Corelli Grappadelli, che ha creato i piccoli capolavori spiegherà al pubblico la tecnica soffermandosi, soprattutto, sulle sculture che rappresentano il potente signore bolognese e la sua consorte. Due personaggi molto cari all’artista, che ne ha approfondito la storia, scoprendo come Giovanni sia stato una delle figure fondamentali delle vicende cittadine. ” Fu lui a volere la pavimentazione di piazza Maggiore- racconta- e a portare l’acquedotto da S. Michele in Bosco fino al Nettuno.” L’ esposizione chiuderà il 14 febbraio, per prenotare visite guidate telefonare allo 051-831112.
Tiziana Ravasio
ORI E BRONZI DALL’ETA’ DELL’ORO
Tiziana Ravasio , 1999
Le opere di Imelde Corelli Grappadelli sono forgiate seguendo tecniche antiche recuperate con lo studio sui reperti archeologici ed una rigorosa pratica manuale. È un lungo viaggio intrapreso tra materie a cui, da sempre, viene attribuito un valore particolare e apotropaico, che viene dal saper fare di generazioni di artigiani e dalla ricerca della “purezza del gesto”, come afferma l’artista stessa che coniuga “la conoscenza dello storico, il saper fare dell’artigiano e la creatività dell’artista”. Per questo l’illustrazione delle antiche tecniche, basata sull’esperienza diretta di chi le ha a lungo indagate e praticate, aiuta a comprendere meglio il valore del sapere di cui tali opere sono frutto. Nell’antichità i manufatti in metallo prezioso erano generalmente costruiti da lamine sottili. Questo consentiva risparmio di materiale ed inoltre i gioielli, risultando più leggeri, erano anche più pratici da indossare. La lamina era dunque la principale base di partenza per la produzione dei gioielli antichi. Nel caso dell’oro questa poteva avere uno spessore infinitesimale da 0,5 mm fino a 0,005 mm quando era ridotto in foglia d’oro, utilizzata per le dorature. La trasformazione, nell’antichità, di oro e argento in sottili lamine si otteneva tramite martellatura. Inizialmente un lingottino di metallo era martellato su un’incudine e ogni tanto ricotto, fino al colore rosso, per mantenerne la malleabiltà ed evitare quindi la sua rottura. Successivamente le lamine così ottenute erano ulteriormente assottigliate con un delicato procedimento di battiture successive tra interiora di vitello per evitare che il martello a faccia larga e piana utilizzato le rompesse. Questa operazione era eseguita da un artigiano specializzato il battiloro, dal latino brattiarius. In mostra sono presenti: una sculturina in oro di piccole dimensioni “Cavallo” ed una spilla in oro di ispirazione etrusca ottenuta, esclusivamente tramite martellatura da un unico pezzo di metallo modellato.
Che cosa si prova, quali sono le difficoltà nel creare oggetti lavorando col martello?
“È un lavoro fisico che richiede molta energia e costanza. Nel caso poi della spilla etrusca mi ricordo lo sfinimento provato alla fine della giornata per il grande sforzo fisico che, partendo dalla schiena, si scaricava sulle spalle e sulle braccia. Fatica che però è stata ampiamente compensata dalla contemplazione dell’opera realizzata”. Le lamine erano successivamente lavorate con varie tecniche: potevano essere stese su di una matrice di bronzo, pietra o legno e battute con martelli e punzoni per farle aderire esattamente alle forme della matrice; oppure, al contrario, sagomate in positivo con strumenti in legno o corno su di una forma di legno o bronzo, che, nel caso di oggetti a tutto tondo, rimaneva poi inglobata nel manufatto finito. Potevano, e questa è la tecnica più frequentemente utilizzata, essere lavorate a sbalzo libero per creare decorazioni complesse a rilievo battendo sulla superficie la lamina che deve essere appoggiata su una base deformabile, piombo, legno o pece per mezzo di punzoni di varie misure e varie fogge. I punzoni potevano infine anche avere la punta configurata, che consentiva di realizzare le decorazioni più semplici e ripetitive. C’è da aggiungere, per completare il quadro, che quando il motivo ottenuto a sbalzo risultava molto profondo, le parti aggettanti erano rinforzate con riempimenti di piombo. Imelde Corelli Grappadelli che realizza gli oggetti solo a sbalzo libero, ci fornisce un magnifico esempio di questa tecnica con la “Collana scita” in oro con figure di cervi.
Come è stata ottenuta questa decorazione?
“Inizialmente sul diritto della lamina sono stati tracciati i contorni delle figure con un cesello a punta sottile rettangolare poi, dopo una prima ricottura, la lamina è stata girata e le figure sono state sbalzate lavorando sul retro con ceselli e punzoni a punta arrotondata. Lo sbalzo, come d’altra parte ogni tecnica di oreficeria, richiede un duro allenamento poiché i gesti devono essere precisi e soprattutto definitivi. Il tornare indietro, il correggersi o anche solo il perfezionare compromettono la semplicità e, quindi, la leggibilità dell’opera. Le figure dei cervi, per esempio, sono state create esclusivamente con soli tre gesti”. Nel corso della lavorazione a sbalzo la lamina doveva essere appoggiata ad un supporto di materiale che fosse sufficientemente solido da sostenere il lavoro e, allo stesso tempo, abbastanza cedevole da assorbire i colpi. Gli antichi utilizzavano solitamente piombo, legno o pece ed anche Imelde Corelli Grappadelli utilizza la pece nera e il pane di piombo. “La pece è un materiale molto particolare che deve essere utilizzata mescolata ad altre sostanze, come per esempio la cera vergine o il grasso di maiale, che la ammorbidiscono, o il caolino, che, al contrario, la indurisce. Essa infatti è estremamente sensibile ai mutamenti climatici e le sue miscele devono conseguentemente variare col mutare delle stagioni”. Le decorazioni create con queste tecniche potevano poi essere ritoccate sul diritto della lamina con ceselli o bulini. Il cesello è uno strumento metallico a forma di asticella con punta temperata di varie fogge che viene battuto con un martello sulla lamina, dove lascia una traccia corrispondente alla forma della sua punta. Il lavoro di cesello non comporta alcuna asportazione di materiale dalla superficie lavorata, ma determina solo un suo spostamento e crea solchi che hanno una caratteristica sezione arrotondata con leggero rialzamento dei margini. Il bulino invece, è composto di una punta di acciaio sagomata e temperata e da una ciappola (pomello di legno) che viene tenuta nel palmo della mano, questo strumento viene spinto in avanti sulla superficie da decorare incidendola e asportandone del materiale. I segni ottenuti a bulino hanno una sezione per lo più triangolare e margini netti. Il bulino, detto anche unghiella, è stato utilizzato per la decorazione dell’anello-sigillo che raffigura Ganimede. Qui i vari particolari delle figure sono incisi sulla faccia dell’anello tramite asportazione di materiale. Un’altra lavorazione molto utilizzata è la lavorazione a traforo ed anch’essa ben rapprersentata nella collana dei cervi sciti. Tale lavorazione consiste nel ritagliare i profili delle figure con una sottilissima seghetta. Nell’oreficeria antica, accanto alla lamina, un’importanza fondamentale era ricoperta dal filo che serviva per fabbricare catene, snodi nonché componente fondamentale nella lavorazione cosiddetta a filigrana. Il primo filo fabbricato nell’antichità era ottenuto da sottili strisce di lamina che venivano ritorte lungo il loro asse poi fatte rotolare tra due lastre di materiale duro, solitamente pietra o bronzo, per regolarizzarne la forma e lo spessore. Questa tecnica lascia come traccia sul filo un caratteristico solco elicoidale lungo tutta la sua lunghezza ed è una delle caratteristiche fondamentali che permettono di riconoscere i veri reperti archeologici dalle falsificazioni. Successivamente con la disponibilità di utensili prima di bronzo e successivamente di ferro furono disponibili le trafile che permisero la produzione di filo per trafilatura, che consiste nel far passare, per trazione, un verguccio di oro attraverso fori di differente diametro e di varie sezioni. È questa la tecnica che utilizza Imelde Corelli Grappadelli per la produzione del filo. Grandi quantità di filo servivano per creare catene, la cui forma più antica è quella della catena cosiddetta fiocco in fiocco, di cui abbiamo un esempio in mostra. Questa catena è costituita da anelli ellittici saldati singolarmente, ripiegati ad arco, compressi nella parte centrale ed infilati l’uno attraverso le estremità dell’altro. La catena poteva poi essere sottoposta a leggera schiacciatura con martello per conferirle l’aspetto di un complicato intreccio. Le due placchette e la spilla di ispirazione etrusca presentano una decorazione granulata, ovvero una decorazione i cui motivi sono ottenuti accostando minuscole sfere saldate alla lamina di supporto in maniera praticamente invisibile. La granulazione, di probabile origine ittita, fu portata al culmine delle sue possibilità tecniche ed espressive dagli Etruschi tra il VII e il VI sec. a.C., poi cadde in disuso ed il suo patrimonio di conoscenze andò purtroppo perduto. Fu ripresa solamente alla fine del 1800 dai Castellani, orafi romani, e dagli orafi europei che si specializzarono nella riproduzione di oreficeria di ispirazione archeologica. Molti sono gli studiosi e gli artigiani che hanno tentato per via sperimentale ed empirica di recuperare questa tecnica perduta. Che cosa può rappresentare in realtà tale tecnica per un orafo? “Ho studiato la granulazione per più di dieci anni e sono convinta che la sua vera importanza risieda nell’effetto artistico che essa produce. La granulazione infatti conferisce alle figure un senso del volume tridimensionale che lo sbalzo non riesce a dare; la luce frammentata e rifratta senza interruzione dalle sfere d’oro, che delineano le figure ottenute con altre tecniche, crea un effetto pittorico paragonabile ad un forte chiaroscuro che fa esplodere l’oggetto nella terza dimensione”. I due problemi tecnici su cui ancora si dibatte in merito alla granulazione sono: la produzione dei grani e il procedimento di saldatura di questi alla lamina. Per quanto riguarda la produzione dei grani, il cui diametro arriva persino ad essere di 0,01 mm (viene detto pulviscolo), la tesi più convincente proposta pare essere quella della sospensione di piccolissimi frammenti d’oro in polvere di carbone all’interno di un crogiolo, che viene riscaldato a 1100°, i frammenti quando si fondono formano grani perfettamente sferici che, dopo il raffreddamento e la risciacquatura dalla polvere di carbone, possono essere separati per mezzo di vagli a maglie differenziate.
Cosa ne pensa Imelde Corelli Grappadelli?
“Questo metodo è valido, ma non molto efficace perché si ottengono grani piuttosto irregolari dalle dimensioni molto diverse e non perfettamente sferici. Io comunque utilizzo la granulazione raramente e quando lo faccio cerco di produrre grani tutti delle stesse dimensioni. Nel caso della granulazione, per me si tratta più di un mio percorso storico di studio che non di un percorso artistico”. Maggiore è il problema della saldatura delle sfere al supporto, cioè realizzare la saldatura autogena, che si concretizza senza l’apporto di alcun materiale esterno sfruttando il momento in cui le superfici di due frammenti metallici riscaldati iniziano a fondere prima del loro nucleo interno. Se le due superfici (nel nostro caso quella del grano d’oro e quella del suo supporto) si trovano a contatto, si ha una compenetrazione delle masse che si uniscono. A questo punto, interrompendo bruscamente il flusso di calore prima che i due corpi si compenetrino, si avranno unioni puntiformi praticamente invisibili. Imelde Corelli Grappadelli così ci spiega la tecnica della saldatura autogena. “Il segreto della saldatura autogena è sapere cogliere il momento esatto in cui le superfici cominciano a liquefarsi e interrompere immediatamente il calore prima che i grani vengano fagocitati dal supporto o che questo si fonda irrimediabilmente. Indizio infallibile del momento cruciale è il colore e l’aspetto delle superfici che un attimo primo di fondere manifestano l’aumentata turbolenza delle molecole superficiali che producono un effetto paragonabile ad un intenso chiarore, quasi un lampo. Ed è proprio per cogliere meglio questo istante che ho sperimentato con successo il procedimento della saldatura al buio. In un ambiente oscurato l’impercettibile variazione di colore della superficie metallica riscaldata emerge con un’incredibile evidenza”. Tecniche antiche, che risalgono alla preistoria dell’uomo, sono state utilizzate da Imelde Corelli Grappadelli anche per le sculture in bronzo e argento, espressione di arte contemporanea. Le figure, costituite da ininterrotti cordoni di bronzo che si attorcigliano su se stessi o le figure in argento, sono state create con la tecnica della fusione a cera persa. Il modello in cera viene ricoperto con una malta refrattaria, quindi dopo l’essiccatura in forno che fa fuoriuscire la cera attraverso gli sfiatatoi viene colato il bronzo che si sostituisce alla cavità lasciata dal modello in cera. In questo modo ogni modello originale produce una sola scultura e quindi la tecnica della cera persa garantisce l’unicità dell’opera. Imelde Corelli Grappadelli ci informa anche che: “La prima forma di fusione forse fu fatta con un procedimento molto più semplice ed immediato, che si avvale di un materiale facilmente reperibile in natura: l’osso di seppia, che è un refrattario eccezionale”. La tecnica della fusione in osso di seppia è stata utilizzata in ogni epoca ed anche da Imelde Corelli Grappadelli per l’anello “Ganimede”.
Giulia Sillato
AMALASUNTA – GIOVANNI – LE QUATTRO STAGIONI
A cura di Giulia Sillato, 1999
AMALASUNTA
Da una fruizione mirata della Storia, scaturiscono le opere bronzee di Imelde Corelli. Prediletti i bacini di idee siti agli albori della civiltà, ossia prima dell’Arte come Rappresentazione quando le immagini si danno per istinto ed intuizioni. Estrae dai personaggi del passato l’essenza archetipica traducendola in una formalistica primitiva. La vicenda della saggia Amalasunta, figlia di Teodorico e regina degli ostrogoti, si condensa nell’espressione tragica del viso e in quelle catene che le si stringono al collo, e ……nei suoi occhi il dramma della reclusione nel castello di Bolsena.
GIOVANNI
E’ sintomatico l’interesse della scultrice nei confronti di personaggi vissuti ai prodromi della civiltà classica, in momenti di repentine svolte, di difficili cambiamenti, figure che per vari versi hanno lasciato una traccia nella storia a seguito di immani tormenti subiti. Non a caso e qui tento una decodificazione di un linguaggio che appare quasi cifrato, la forma stilistica strutturante l’immagine risponde con insistita gestualità all’avvolgersi della spirale. Mistero Sentimento e Storia alimentano Giovanni II Bentivoglio, Signore di Bologna a metà del Quattrocento, che quantunque si fosse adoperato per la tutela del suo potere dovette inesorabilmente soccombere all’imperatore Carlo VIII prima ed a papa Giulio II fino alla scomunica che lo allontanerà per sempre da Bologna.
LE QUATTRO STAGIONI
L’epica sottesa al poliedro tematico della scultrice, qui, assume risvolti e valenze metastoriche non riconoscibili nella scultura classica da cui si discosta per forme e per modi, pur accogliendo di quelle il significante dell’esistenza. Le quattro stagioni di Imelde non sono necessariamente la visualizzazione del ciclo vitale dell’anno solare, perché a pochi cenni essenziale è affidato il tono descrittivo (la primavera segna con l’apertura delle braccia l’inizio delle stagioni oppure l’autunno involuto in se stesso recita la fine di un momento esaltante…) bensì la lettura di una filosofia profonda impressa sulla memoria e trasmessa nei secoli attraverso un filo che continua ad avvolgersi
Valeria Tancredi
UN’ARTISTA CHE AMA LA STORIA
Valeria Tancredi , 2008
Gli oggetti creati dalla fantasia e dalle mani di Imelde Corelli sono opere d’arte. Sculture, gioielli, soprammobili, unici nel loro genere. Ispirati alla vita
di persone vissute secoli or sono. Come Ginevra Sforza Bentivoglio, donna coraggiosa e affascinante che fu signora di Bologna.
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Roberto Vitali
IMELDE CORELLI GRAPPADELLI
di Roberto Vitali, 1993
La galleria Fatto ad Arte ci ha abituati a rare ma insolite rassegne nel campo dell’oggettistica. Questa volta vengono presentate delle ghiribizzose sculture in terra cotta unitamente a una raccolta di gioielli realizzati tramite il rimontaggio di antichi sigilli e pietre magiche incise, tutto ciò ad opera di Imelde Corelli Grappadelli. Ne risulta una mostra curiosa ove felicemente si congiungono il fascino dell’antico e il gusto per il moderno .
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